IL PERSONAGGIO Ecco chi è Alessandro Proietti Refrigeri, lo chef che con la Coldana di Lodi ha conquistato la stella Michelin

Un giovane ambizioso e preparatissimo, lo scopriamo nell’intervista rilasciata a Eugenio Lombardo pochi mesi dopo il suo arrivo in città

Forbito nel linguaggio, con quell’accento romano che avvolge le parole, come la pasta sfoglia più leggera un ingrediente di gusto forte eppure delicato, mai un eccesso, una sbavatura, un unto di sugo sul tovagliolo immacolato, Alessandro Proietti Refrigeri è il noto chef del ristorante La Coldana di Lodi: uno stile il suo perfetto, impeccabile, espresso in concetti che delineano senso dell’etica e dell’arte, descrivendo una tavola che sa di famiglia e di cose buone, e di azzardi che si rivelano vincenti e naturali, riportati al senso comune delle cose, tutto è facile dopo essere stato inventato.

Leggi anche

Il nostro è uno strano incontro, nato già da un equivoco: mi trovo davanti un ragazzo giovane e dal sorriso affabile (Alessandro ha 35 anni, ma ne dimostra meno) a cui chiedo di annunciarmi cortesemente allo chef. Sono io, mi dice. Lo guardo divertito: non può essere, così famoso, e così giovane! Tutto l’incontro si svolgerà così: lasciandomi incantare da una giovinezza, che non svelerà mai una fragilità d’inesperienza, ma la serena consapevolezza che le utopie vanno quotidianamente accarezzate, con delicatezza, e sempre per renderle realtà. E che le inquietudini interiori si superano cercando nuovi approdi. Solo alla fine del nostro incontro, lo chef accompagnerà ai suoi sorrisi, improvvisi e celati accenni di una timidezza genuina, vera, e l’uomo abbandonerà per un istante il virtuale copricapo da chef, svelando tratti della propria anima.

Alessandro la tua fama è accompagnata dalla scia della stella Michelin che ti è stata riconosciuta, quando?

«Ho avuto il riconoscimento, poi confermato anche successivamente, nel 2018. La premiazione avvenne poi a Piacenza nel novembre dell’anno successivo. Malgrado tra nomina e premiazione fosse decorso del tempo fu ugualmente una grandissima emozione».

Quando scopri questa vocazione culinaria?

«L’ho avuta sempre. Già bambino partecipavo ai riti domenicali in casa, con mia nonna e mia madre: preparare il pranzo era un modo di vivere la famiglia. Conseguentemente ho scelto la scuola alberghiera, e quando studiavo frequentavo gli alberghi a 5 stelle di Roma per qualche lavoretto. Insomma, una strada tracciata, ma in modo naturale».

Quindi una volta diplomato…

«Ho lavorato al ristorante stellato All’Alloro, sempre a Roma, mentre, nel 2007, sono andato nell’isola di Salina all’albergo Capo Faro Resort della famiglia Tasca d’Almerita, struttura in cui ho ricoperto il ruolo di sous chef. Quindi, dopo una nuova parentesi a Roma, ho deciso di maturare un’esperienza all’estero».

E dove sei andato?

«Prima a Copenaghen, per due anni, in quello che era considerato uno dei migliori ristoranti al mondo, il Noma; poi si decise di esportare quella cucina in Giappone e per quattro mesi sono andato a lavorare a Tokio. Alla fine avevo nostalgia dell’Italia e sono tornato a Roma».

Ma la cucina estera ti ha lasciato qualcosa, o noi italiani abbiamo solo da insegnare? Non essere immodesto, sincerità assoluta…

«Non sono rimasto impressionato da uno specifico piatto, bensì da alcune lavorazioni nel loro complesso. In Danimarca, certo, hanno un approccio diverso dal nostro: ad esempio curano molto le attrezzature, cercano sempre i macchinari più innovativi; e si presta molta attenzione nella cura dei locali e nella gestione del personale. Poi sono stato anche fortunato».

Cioè?

«Ho lavorato con lo chef René Redzepi, metà danese e metà albanese, è quello che ha creato la cucina nordica: mi ha aperto un mondo, una persona molto carismatica, sempre innovativo, mi ha aiutato molto a comprendere questo: invece di sbattere la testa sui problemi, occorre concentrarsi sulle soluzioni».

E quando sei rientrato, una volta appagato il desiderio di ritorno?

«Dopo un paio d’anni come sous chef, ho deciso di approfondire la teoria della gestione di cucina, assumendo la gestione del personale del gruppo Bernabè, che a quel tempo - era il 2016 - aveva 12 locali, mentre adesso mi pare siano aumentati: divenni quindi lo chef coordinatore di tutti i punti vendita, sotto di me avevo oltre cento dipendenti. Però avevo già messo in conto una cosa».

Quale?

«Che la cucina, intendo il cucinare, mi sarebbe mancata».

A La Coldana di Lodi quando arrivi, e come mai?

«Nel gennaio del 2023. Accadde che Alessandro Ferrandi e Fabrizio Ferrari vennero a mangiare in un ristorante a Roma dove lavoravo e rimasero favorevolmente impressionati dei miei piatti. Vollero perciò conoscermi ed approfondire le mie idee. Ci trovammo d’accordo su tutto, praticamente. Così il 19 gennaio di quest’anno - San Bassiano - ho cominciato qui, avviando un nuovo corso del locale».

Primo punto di svolta?

«Intanto noi lavoriamo su massimo 10 tavoli. E ciò per rispettare quella che è la mia filosofia di base; ogni piatto è per me un mix delle mie esperienze passate, ma sempre coinvolgendo le esperienze del territorio. Questa particolarità deve rispecchiarsi in ogni proposta che arriva al tavolo».

Oggi il richiamo al territorio è una costante, però.

«Vero, ma io parto da un vantaggio: non essendo di qui, ho studiato tutti i particolari. Dalle ceramiche, alle farine, ai formaggi, ad ogni ingrediente che meriti considerazione».

C’è un piatto che per te è una costante, da cui faresti fatica a privarti?

«Rape radice e vegetali».

Scusami?

«Si tratta di un piatto costituito da vegetali, che tuttavia cambiano a seconda delle stagioni, ora ad esempio abbiamo le more in conserva per l’autunno, o le ortiche a marinare, e questi vegetali simulano diverse idee: abbiamo cominciato con 12, adesso sul piatto ne mettiamo 32, con un impiattamento a senso orario, dunque è anche divertente, e poi è accompagnata da una kombucha fatta da noi».

Una cosa, Alessandro?

«Una bevanda analcolica stagionale. Vuole vedere una foto del piatto? Osservi e mi dica».

Bello è bello, non c’è che dire!

«Direi che è un piatto completo. Ad esempio, nella nostra proposta di degustazione è l’ultimo piatto: ha la parte salata ma fa da conduttore al dolce».

Preferisci la cucina dell’invenzione immediata o quella a lungo meditata?

«Alcuni piatti vengono di getto, altri li provo sino a sessanta volte. Faccio lo chef e devo sempre valorizzare il gusto. Certo, l’occhio è importante, ma il gusto ha priorità assoluta».

Hai portato un piatto della tradizione romana nel tuo menu odierno?

«Sì, più d’uno, ma sempre in una chiave di ricerca e quindi di riproposizione in modo differente».

Ad esempio?

«L’uovo 65 alla carbonara: fatto ovviamente senza carboidrati ma con la scarpetta fatta col pane si ottiene quel richiamo. Piuttosto che i bottoncini di patate, con crema cacio pepe, tartufo nero e erbe selvatiche».

Domanda trabocchetto: c’è la pasta sul tuo menu? Altrimenti, grazie, ma non vengo.

«Tranquillo: c’è. Privilegio due paste fresche, di cui una ripiena. Poi c’è quella secca, normalmente uno spaghetto di grano duro. E poi il risotto. Quindi, va sul sicuro».

E un secondo del cuore nel menu di Alessandro Proietti Refigreri?

«La varietà è nel cuore. Cambio sempre».

Al dolce che importanza dai?

«È parte della cucina. Ma alla pasticceria come alla panificazione pensa una collaboratrice del mio staff: Giulia Seveso, che lavora con me già da tempo. Tra i vari piatti c’è una linea comune, un filo conduttore, un filo logico, e cerco dunque di promuovere proposte mai banali o scontate».

Ho capito: niente panna cotta!

«Esattamente. Accarezziamo l’idea di un dolce che accompagni le stagioni quindi usando i prodotti di quel tempo: insomma, un dessert che riconduca a vivere quella stagione che tu attraversi. Ad esempio un gelato ai fiori di tiglio, piuttosto che alla camomilla. Oppure d’inverno una meringa ghiacciata».

La Coldana ha avuto sempre una buona tradizione sui vini? Lo chef consiglia o demanda?

«Personalmente ho buone competenze, ma non travalico il ruolo del sommelier, che ha compiti importantissimi, come il personale di sala, che deve rispecchiare la filosofia del locale. Si lavora insieme, all’unisono. Comunque se uno fosse astemio vi sono anche proposte analcoliche per apprezzare il nostro percorso gastronomico».

Come hai trovato i lodigiani a tavola?

«Disposti a lasciarsi incuriosire, come siamo tutti noi italiani. Chi viene a La Coldana sa che, relativamente al cibo, alla ricerca del gusto, farà un’esperienza a 360 gradi. Normalmente chi siede ai nostri tavoli, quando si alza, dice di volere tornare. Lo leggo come un buon segno».

Chef, come lo immagini il tuo futuro?

«Qui a Lodi, dove sono adesso: a La Coldana stiamo costruendo un progetto solido e ambizioso. Ho tutta l’intenzione di fermarmi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA