Dagli strozzapreti alla torta lodigiana, la storia approda sulla tavola

Tappa a Graffignana, alla trattoria di Lorenzo Pozzoni: un’istituzione culinaria

Lo chef Lorenzo Pozzoni, dell’omonima trattoria di Graffignana, è un uomo che tra le righe svela tante cose di sé: e forse, raccontando del nonno, inconsapevolmente descrive se stesso. Mi appare come una persona vera e senza fronzoli, semplice nei gusti e nei modi, ma di notevolissima sensibilità e di autentica erudizione, quella appresa dall’esperienza, ascoltando, imparando, e facendo memoria di ogni cosa. Ha sicuramente sacrificato la propria vanità al senso della famiglia, all’unione con i propri cari: della cucina ha fatto un mestiere, la sua professione. Se gli dicessi un’arte, mi guarderebbe sicuramente perplesso. Ma ogni volta che ho mangiato alla sua tavola mi sono trovato a leccarmi le dita, e non solo idealmente. A distanza di tempo ricordo ogni suo piatto: quando accade, vuole dire tanto.

Da quanto tempo la trattoria appartiene alla sua famiglia?

«Dal 1911, quando mio nonno Giacomo acquistò questi locali. Lui, che era nativo del 1880, era sfollato a seguito dell’alluvione dell’Albarone, vicino Chignolo Po, dove quasi tutti si chiamano Pozzoni ed almeno la metà è imparentata. Già in quel luogo aveva una trattoria: esistono delle vecchie fotografie, dove è possibile vedere fiaschi di vino, collocati sugli scaffali ed il cui collo era legato ad un chiodo sul muro, così che eventuali esondazioni del Po non li trascinassero via».

Quanti anni aveva il nonno quando arrivò qui?

«Poco meno di trenta; dal 1909, per un biennio, gestì un esercizio a Borghetto Lodigiano, quindi venne a Graffignana. Era un uomo alla mano, molto religioso, parlava con tutti, e oltre a fare l’oste svolgeva pure l’attività di ciabattino A proposito, sa perché la trattoria è denominata così?».

Non mi sono mai posto il problema, veramente.

«Perché in questi locali si effettuava pure il tratto postale. Nel nostro locale, ad esempio, giungeva la corrispondenza da Milano: e qui si cambiavano i cavalli per le successive spedizioni. E sempre da noi si vendevano i biglietti, ne conservo ancora alcuni, per la chiatta che conduceva a Borghetto».

Come posso immaginare la trattoria di quei tempi, allora?

«Intanto qui c’erano pure degli alloggi per la sosta, ma qualcosa da mangiare si trovava sempre, ad esempio “la piccola” non mancava mai”.

Ha detto la piccola?

«Esattamente. Si trattava della carne di cavallo macinata e cotta con verdure, i peperoni erano sempre presenti, quindi sedano, cipolle, carote: doveva cuocere per ore, anche perché i cavalli non è che fossero tanto giovani. Poi i salumi lavorati in casa, e del buon vino, perché mia nonna aveva un vigneto sulla Valle Lunga, nelle nostre attigue colline. Graffignana era un paese tranquillissimo: passava solo una macchina, ma era da corsa, guidata da Giuseppe Campari, pilota di Formula 1, che era di qui: può immaginare il rombo del motore e la nuvola di polvere che sollevava nelle nostre strade rupestri».

Poi cosa accadde?

«Il nonno morì giovane e, ancora ragazzo, gli subentrò mio padre Pietro, detto Pierino. Ma poi avvenne la Seconda guerra mondiale, papà partì soldato, e poco dopo la trattoria fu requisita dai tedeschi. Papà fu fatto prigioniero, deportato in diversi campi di concentramento, dove rimase per almeno quattro anni: conservo ancora i suoi diari in cui annotava tutto. Le dico questo: papà era alto 1,80 cm per una novantina kg di peso. Sa quanto pesava al suo rientro? 45 kg, le ho reso l’idea?».

Immagino che fu dura ricominciare.

«La trattoria era in condizioni disastrose. Papà si rimboccò le maniche, sposò mia madre Angioletta Germani e gradualmente la vita riprese. Un’altra caratteristica della nostra trattoria è stata quella di produrre e, almeno originariamente, commercializzare il vino: facevamo tante consegne nelle case dei milanesi. In ogni caso, credo che questa è l’unica trattoria in giro che produce integralmente il proprio vino, sia bianco che rosso. Produciamo e mettiamo in tavola».

Com’era la cucina dei suoi genitori?

«Ai fornelli stava la mamma. Si cucinavano i piatti della tradizione: ad esempio, diversi tipi di ravioli di pasta fresca, col brasato, con la zucca, alla ricotta, alle ortiche, e anche di altro tipo sempre utilizzando gli ingredienti di stagione».

La loro conduzione sin quando durò?

«Papà morì a 52 anni, e nel 1974 cominciai ad affiancarmi a mia mamma. Avevo scelto la scuola alberghiera di Milano e per un paio d’anni feci numerosi stage per continuare a studiare, approfondire e migliorare. Ho lavorato in alcune importanti realtà di Milano ed anche in un lussuoso albergo di Malta, oltre che in diversi altri luoghi. E poi…».

Poi?

«Mia mamma fu chiara: se torni, proseguo. Altrimenti molliamo qui. Mi disse così».

E lei?

«Questa è sempre stata un’azienda famigliare. E poi io ho un sacro senso delle radici. Mio fratello Giuseppe, che ha svolto un altro lavoro, comunque ha sempre dato una mano anche qui. Come avrei potuto mai andarmene?».

Ha apportato dei cambiamenti?

«Sì, ho cambiato molte cose, ma partendo da un principio: la mia cucina avrebbe sempre rispettato il valore della tradizione. Anzi, ho cercato di salvaguardare quei piatti che apparivano estinti: ad esempio, gli strozzapreti lodigiani».

Piacciono molto a mia moglie!

«Alla base, sono con un impasto di farina e pane. Sa perché si chiamano così? La tradizione dice che i prevosti si recavano presso le famiglie una volta all’anno per fare la questua: chi era povero, gli offriva questo piatto utilizzando pochissima farina e tanto pane grattugiato; mentre chi era più in soldi metteva anche un uovo. Dall’impasto si ricavavano delle listarelle».

Era un piatto asciutto?

«Andava solo migliorato. A questi ingredienti tradizionali occorreva aggiungere l’acqua calda, e poi un sugo particolare con buoni pomodori, i fagioli dell’occhio, e un’erba peperina, “pevra” in dialetto, che noi coltiviamo ancora adesso. Aspetti gliela faccio vedere. Sente che buon odore? È un piatto che facciamo dalla primavera all’autunno, finchè c’è quest’erba. Le confesso una cosa: ho una grande passione per le erbe selvatiche spontanee».

Però da voi sono noti ed apprezzati i vostri bolliti di carne.

«Grazie, è vero. Noi ne utilizziamo cinque, sei in particolare: la testina di vitello, la gallina, il cappello da prete, il cotechino, la lingua ed ultimamente anche il girello di vitello, cioè il muscolo dello stinco. Ovviamente vanno fatte cotture diverse per ogni tipo: comincio a cuocere alle otto del mattino, a mezzogiorno ho tutto pronto, e nel brodo li inserisco gradualmente. Ma il vero segreto è nella qualità della carne».

La sorpresa la diciamo?

«Scusi?».

Il vostro multiforme carrello dei dolci, spettacolare!

«L’ho visto altrove, e l’idea mi piacque. Il dolce da me preferito è la torta lodigiana, col mascarpone, farina, uova, zucchero: la faceva già mio nonno, e quelli che avevano la ghiacciaia, altrimenti il mascarpone non lo tenevi, squagliava. Sono almeno 100 anni che la proponiamo. Sopra ha uno strato di mascarpone al cioccolato, e sotto al tuorlo d’uovo».

Ma non ha mai avuto la tentazione di lavorare altrove, Milano sarebbe stata ad un passo.

«Uno chef che stimavo molto mi diceva sempre: i profeti non sono mai a casa propria. Come gli chef. Relazionarsi col proprio paese non sempre è facile. Ma, come le ho spiegato, questa è un’azienda famigliare. Sono felice di essere rimasto a Graffignana».

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