All’osteria come a casa, la “filosofia” di Alberto Carelli

LA CUCINA DELL’ANIMA Il viaggio nel gusto ci porta nella Bassa Lodigiana, all’Osteria del Vicolo di Casalpusterlengo

Alberto Carelli, titolare e chef dell’Osteria del Vicolo di Casalpusterlengo, è un uomo a cui piace la compagnia. Ogni suo piatto ha per contorno il gusto della conversazione, di quella leggera, ma ricca di spunti. Mi riceve in un pomeriggio essenziale di luci. Mi sommerge di parole, ma inizialmente io sono distratto: guardo l’ambiente, ogni particolare mi colpisce, dal pavimento con le mattonelle antiche agli oggetti: «Quel quadro lì - interviene Alberto, accorgendosi che lo sto guardando con curiosità -, mi fa piacere che ti piaccia, ma non so chi l’ha realizzato. Era un artista di strada, di questo sono sicuro. C’era un’estemporanea a Casale per gli amatori. Quel giorno pioveva: lui si mise sotto un portico di un’abitazione di fronte e pennellò la strada su cui si affaccia l’osteria, dandole un bel risalto: mi piacque così tanto, che gli acquistai l’opera».

C’è un’unica, piccola stanza eppure sembra che esprima vita: davvero affascinante l’ambiente.

«C’è la mano di mia moglie, Daniela Curti. Se vedi così in ordine il merito è suo, perché io sono di mio un confusionario. A questo locale sono legato in maniera quasi ancestrale: infatti sono nato qui».

Culla e bottega, verrebbe da dire!

«Quando mia madre ebbe le doglie, capì che non avrebbe fatto in tempo ad arrivare in ospedale, e mi ha partorito al piano di sopra. Di sotto, invece, c’era una rosticceria: dal 1962 al 2000 fu condotta da Il Salumaio della Pusterla; certo che aveva un suo nome, ma qui lo conoscevano tutti con questo titolo; lui aveva maturato un’esperienza lavorativa alla gastronomia Peck di Milano, e dunque era tenuto in alta considerazione».

Tu invece quando hai cominciato l’attività di ristorazione?

«A dirla tutta, volevo divenire vigile del fuoco. Quando indivano i concorsi risultavo sempre fuori età. Ho potuto farlo solo come volontario, non era destino. Così sono diventato rappresentante di prosciutti crudi e dei suoi derivati. Una vita in viaggio. Quando il Salumaio della Pusterla andò in pensione, essendo proprietario dei muri mi posi questa domanda: perché non provare a fare qui un mio piccolo esercizio? Avviai l’attività il 3 marzo 2001. All’inizio si trattava di una cosa senza troppe pretese: questo era un luogo per merende. Due fette di salame e un bicchiere di vino. Ma poi i clienti cominciarono a sollecitarmi proposte diverse. E cominciai con due primi e due secondi».

Hai avuto coraggio.

«E anche la fortuna di avere un grande maestro in mio padre Carlo. Lui faceva il direttore dell’Ortofrutticolo di Milano, ma nel tempo libero si metteva ai fornelli: prima ancora della qualità dei suoi piatti, mi piaceva la passione che metteva, lo guardavo ammirato. Poi, la spinta a proseguire me l’hanno data i clienti, le recensioni su Tripadvisor, tutte positive: gradualmente ho ampliato le mie proposte, ora nel menu a la carte ho sei primi e sei secondi. Però, a volte cucino ciò che mi detta l’estro: se la mattina mi sveglio col desiderio di fare pasta e fagioli, quello diventa il piatto forte della giornata, perché il cliente deve sentirsi come un ospite nella mia casa, insomma non è che quando uno invita gli amici fa scegliere loro cosa mangiare, si prende quel che il padrone di casa ha pensato per loro».

Quindi cenare all’osteria del Vicolo è come sentirsi a casa propria?

«In un certo senso, sì: il locale si adatta alle esigenze dei clienti. Se c’è la compagnia allegra, che vuole musica, allora metto un disco. Se c’è qualche avventore con l’aria da intellettuale, nel locale si fa silenzio. Ma c’è una costante».

Vale a dire?

«A me piace conversare, intrattenermi col cliente. Sentire le sue storie, se ha voglia di raccontarle, e narrare le mie. Sinché l’acqua non bolle, di là in cucina, questo è un luogo di incontri, dove incrociare per qualche istante i propri destini: il cibo è un viatico validissimo per parole che possano arrivare dritte al cuore».

Facciamo che io, abituato a fare domande, opti adesso per il silenzio e per mangiare in solitudine. Che antipasti sono previsti?

«C’è un assortito buffet: insalata di mare, insalata russa, patate fritte o al forno, crocchette di patate ed alla mozzarella, riso freddo, salame, prosciutto crudo, cotta, coppa, pancetta».

Un assaggio di tutto, grazie, per passare ad un primo: lo chef consiglia?

«Bontà di chi lo dice, ma pare che io sia considerato un maestro nel fare i risotti: potrei proportene uno con barolo, salsiccia e panna verde, quest’ultima chiamata così perché è a km zero, presa da uno stabilimento vicino. Quanto barolo e perché questo vino? Dipende dalle proporzioni: con una tavolata di sei persone, metto una bottiglia intera. Mi piace il suo gusto forte, assolutamente deciso. Fossi venuto qualche settimana fa ti avrei proposto un risotto ai fichi e mozzarella».

Malgrado io li apprezzi, un’alternativa ai risotti?

«In questo periodo, tortelli di zucca. Oppure al brasato; o di magro, con ricotta e spinaci. Se preferisci, puoi optare per le lasagnette con panna verde, pesto e salsiccia».

Vada per le lasagnette, ma non è che poi sono monoblocco, vorrei una cosa cremosa, mi spiego?

«Scherzi?! Con me vai sul sicuro: la pasta è fatta in casa, la salsiccia la lavoriamo ben benino, vedrai che gusto eccellente».

Ovviamente a Casalpusterlengo non posso pensare di ordinare del pesce, giusto?

«Ti dirò: io lo faccio, ma a quel punto perché non optare per un menù interamente a base di pesce, a partire dall’antipasto, ad un primo con sugo che profuma di mare, ad un branzino al forno tale da lasciare sul piatto solo le spine?».

E chi invece opta per un secondo a base di carne?

«Ha solo l’imbarazzo fra alcune valide scelte: forse quello più rinomato è la sella di vitello al forno con patate; oppure il nostro tomahawk di carne, simile come immagine ad un’ascia degli indiani, con un taglio tenerissimo. Altrimenti un carpaccio di roast beff. O una tartara di bue argentino con rucola, raspadura e pomodori a fette. Oppure uno stracotto d’asino con polenta, piuttosto che un piatto di manzo sempre con polenta».

Tutto molto interessante, chef Carelli.

«Ma non è finita qui. C’è un piatto che ti stupirà. Nel passato mi ha dato una mano un ragazzo originario del Brasile e da lui ho imparato come si fa la picanha, cioè la parte posteriore del bovino, servita su stecco di legno, con patate al forno, broccoli ed insalata».

Quando si può venire a mangiare?

«Siamo aperti tutti i giorni, eccetto la domenica. A pranzo effettuiamo i menu da lavoro, al costo di 13 euro. Di sera atmosfera e piatti hanno nature diverse, ovviamente. Ma per le serate del venerdì e del sabato è meglio prenotare».

Alberto, mi stai nascondendo una cosa.

«Davvero? Cosa?».

So che il tuo locale è frequentato da noti artisti.

«Vuoi vedere le fotografie? Perché io chiedo, a fine cena, se possiamo fare una foto insieme, ma non per vanità, solo come mio ricordo. Come arrivino qui, è un mistero. Certe volte, vedendoli entrare, non ti faccio i nomi, resto a bocca aperta. Mi dico: sarà un sosia. Invece sono proprio loro, in carne ed ossa!».

Bello e divertente, no?

«Sicuramente, ma questa è una realtà aperta a chiunque: dal dirigente d’azienda all’operaio, non vorrei enfatizzare questa presenza degli artisti, quando arrivano, al di là della comprensibile richiesta di una foto, sono trattati come chiunque altro».

Un dolcetto, per chiudere?

«Li prepara mia moglie: dal tiramisù alla torta di Casale, vera specialità della casa, ad altri ancora».

Ti dai un merito particolare?

«Per la cucina l’unico giudice è il cliente. Riguardo a me, avere resistito dopo il Covid: se non avessi avuto le mura di proprietà forse non ce l’avrei fatta. Siamo ripartiti dalle nostre certezze, dalla nostra identità di naturalezza».

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