Riforme costituzionali, prosegue il dibattito

La riflessione sull’ipotesi del modello americano per il nostro Paese

Nella serata di mercoledì 18 gennaio si è tenuta a Palazzo Chigi una riunione per mettere a punto il percorso tecnico e politico con cui procedere alle riforme costituzionali che l’esecutivo intende varare nel corso di questa legislatura, ovvero l’autonomia differenziata per le regioni e la trasformazione del nostro sistema politico da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale (come quella prevista dalla costituzione degli Stati Uniti) o semipresidenziale (che ha il proprio modello nella Francia della Quinta Repubblica).

Non ci si stupisca che questi due progetti possano scandire insieme la riforma del nostro assetto istituzionale a cui il governo di Giorgia Meloni intende dare il proprio suggello.

Per il vero, già nel 1955 (e quindi a soli otto anni dall’entrata in vigore della nostra Carta), un insigne giurista come Giuseppe Maranini (introdusse nel linguaggio politico italiano la fortunata formula “partitocrazia”) si dichiarò fautore “di una equilibrata repubblica federale presidenziale” dalle pagine del «Resto del Carlino» del 24 giugno 1955, al fine di superare, come ribadì su «La Nazione», il 15 giugno 1957, quella via intermedia che l’assemblea Costituente “credette di poter battere”, e che, invece, secondo un altro grande giurista di quegli anni, Piero Calamandrei, costituiva per davvero la struttura più originale della nostra repubblica.

Del resto, vale aggiungere, che Maranini, a partire dagli anni Cinquanta, aveva sempre indicato nel sistema politico americano il vero modello a cui ispirarsi, modello in cui vige, come è noto, un forte potere esecutivo, detenuto dal presidente, a cui fa da contrappeso l’autonomia decisionale attribuita ai singoli stati in molti campi.

Venendo ad analizzare più da vicino le ragioni avanzate dai sostenitori del presidenzialismo bisogna osservare che queste militano a favore di una maggiore efficienza del processo decisionale. E se il tema della autonomia regionale rimanda al dibattito, assai intenso già durante la prima legislatura repubblicana, intorno alla necessità di portare a compimento la nostra Carta costituzionale (Calamandrei, ad esempio, la battezzò “l’Incompiuta”), il problema dell’efficienza del potere esecutivo rimanda addirittura al dibattito politico sviluppatosi nella prima età moderna.

In tale dibattito al determinismo decisionale esaltato dai sostenitori della monarchia veniva contrapposta la complessità delle procedure istituzionali descritta dai difensori della repubblica. Infatti, Nicolò da Ponte, doge di Venezia dal 1578 al 1585, era solito sottolineare che “Non poteva il doge dire sic volo, sic iubeo (così voglio, così ordino), nemmeno i Savi potevano promettere alcuna cosa ferma in qualsivoglia materia, convenendosi in tutte le deliberazioni muover una macchina così grande com’è il corpo di tutto il Senato, dove intervengono tanti e dove ciascuno è libero padrone della sua volontà”.

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