L’Europa nella morsa delle guerre in Ucraina e Palestina

Il commento di Giuseppe Casale

I due conflitti che, come fuochi, divampano a un passo dall’Ue, colpo su colpo, stanno bruciano l’aspirazione - accarezzata alla fine della Guerra fredda - di costituire un soggetto geopolitico con autonoma iniziativa equilibratrice, ponte tra mondi diversi. A stringere in morsa l’Europa è soprattutto il dilemma amletico: essere o non essere? Essere in grado di catalizzare convergenze costruttive oppure subire gli eventi e le agende altrui, navigando a vista senza un chiaro senso di marcia?

Il concetto di guerra a oltranza in Ucraina mostra la corda. Evaporata la certezza nell’immancabile vittoria - che nel 2022 aiutò a sabotare i negoziati di Istanbul - non resta che uscirne il meno rovinosamente possibile.

Ma non è ancora giunto l’ordine di riporre l’elmetto finanziario, dovendo continuare a sovvenzionare il conflitto. Come se il divieto di trattare stabilito per decreto da Zelensky riguardasse anche la nostra diplomazia. Non basta la distruzione del Paese, appeso ai 5 miliardi di dollari che servono ogni mese per fingere di non essere uno Stato fallito. E neanche la tensione nei suoi apparati, palesata con la rimozione di Zaluzhny che paga la sua popolarità: insidiosa per Zelensky, a cui il generale rinfacciava le pretese suicide a scopi propagandistici e i reclutamenti di gente inabile (fino alla legge sulla mobilitazione ora approvata). Avendo formalmente certificato la sospensione delle presidenziali, il leader ha di che temere, rischiando di farsi capro espiatorio di chi cerchi una via d’uscita: mediante un colpo di mano militare, con lo sponsor di chi cedesse alla tentazione di cambiare cavallo.

Le ricadute sull’Europa di guerra e sanzioni, a partire dalla stretta energetica, avvicinano lo spettro della recessione, profilando ancora austerità dopo la sospensione del Patto di Stabilità che, per un attimo, aveva ridato ossigeno, attivando anche in Paesi come l’Italia una crescita che non si vedeva da decenni. Mentre ci si arrovella nell’escogitare meccanismi di sopravvivenza, Washington stanzia sussidi per pompare l’economia interna dirottando investimenti anche dal Vecchio Continente. In tale cornice si iscrive l’ulteriore cortocircuito, per cui si continua a finanziare il prolungamento di una guerra che affossa la capacità economica di generare gli aiuti stessi, per non parlare della futura ricostruzione. Ma sebbene la coperta sia corta, la Nato detta le spese per il riarmo, in vista del giorno in cui Mosca tenterà di annettere le coste atlantiche.

Le contraddizioni fanno da sfondo alle agitazioni degli agricoltori: più estese ma non nuove, considerando quelle contro le disarticolate misure di Bruxelles sul grano ucraino, che nel 2023 hanno pesato sulle urne polacche e slovacche. Le proteste oggi riguardano il caro carburante e le politiche che strangolano i piccoli produttori a vantaggio dei giganti nella grande distribuzione: ben altro dalla fuorviante riduzione agli slogan contro la farina di grillo. Piuttosto lo spargimento di letame esprime una pericolosa delegittimazione delle istituzioni europee, colte in fallo sulle promesse primordiali di un’integrazione foriera di pace ed equo benessere.

Sul versante del fuoco mediorientale, le ripercussioni parlano con i dati delle perdite (già decine di miliardi) per i ritardi e i dirottamenti sui porti atlantici dei flussi mediterranei impediti dall’insicurezza del Mar Rosso, con implicazioni su filiere produttive, assicurazioni, titoli azionari, ancora sui carburanti e infine sui prezzi finali. Ma è poca cosa paragonata al vulnus politico sofferto da un’Europa sempre più diluita nell’Occidente collettivo paralizzato di fronte alla devastazione a Gaza: un’inerzia che, agli occhi esterni, rende sempre più sottile il confine tra la solidarietà a Israele e la complicità con i ministri di Netanyahu che tutt’oggi parlano di colonizzare la Striscia entro due anni sfollando altrove i palestinesi sopravvissuti.

D’altronde a diversi governi europei è bastata la parola di Tel Aviv per revocare i finanziamenti all’Unrwa per presunte connivenze con Hamas di 12 collaboratori (su 12mila in organico), privando l’agenzia dell’Onu di risorse oggi come non mai necessarie ai soccorsi umanitari. Ciò senza regolare inchiesta internazionale, facendo valere invece l’aritmetica della rappresaglia insieme al principio della colpa collettiva, già applicato sulla pelle della popolazione di Gaza.

Il resto del mondo osserva e misura la credibilità di un Occidente isolato nelle sue autorappresentazioni inconseguenti, avvitato in contraddizioni confezionando tremendi precedenti. Un Occidente che invece potrebbe giovarsi della rettificazione moderatrice di cui l’Europa sarebbe capace. Se solo la sua classe politica, anziché indugiare nel “cupio dissolvi”, avesse un sussulto di consapevolezza e lungimiranza, per curare, assieme ai quelli domestici, gli interessi di una società internazionale inevitabilmente e pluralisticamente interconnessa, contro cui si infrange il velleitarismo anacronistico delle cortine. Se solo l’Europa scegliesse, dimostrandolo, di essere. 

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