
Editoriali / Lodi
Mercoledì 09 Luglio 2025
Il cambio di regime in Iran: quattro ragioni del fallimento temporaneo
«Le democrazie non si fanno la guerra»: si può ancora dire?
In un video messaggio diffuso durante i giorni dell’attacco israeliano all’Iran, Benjamin Netanyahu incitava gli iraniani a disfarsi del sistema teocratico. Da sempre nemico di Israele, autocratico e dispotico, il regime degli ayatollah avrebbe potuto ricevere un colpo decisivo quando al malcontento popolare si fosse aggiunta la potenza di fuoco dei bombardamenti israeliani. Dopo la distruzione del programma nucleare, il “cambio di regime” era dunque l’altro obiettivo dichiarato di Tel Aviv. Ma dopo le esperienze americane in Iraq e Afghanistan, si hanno ora strumenti per individuare almeno quattro grossi problemi con tali progetti di ingegneria sociopolitica. Problemi che dovrebbero renderci alquanto scettici sulla loro viabilità e opportunità.
In primo luogo, e più banalmente, l’esecuzione pratica: un regime non cade mai per soli bombardamenti aerei. Serve un’invasione di terra - come appunto in Iraq o Afghanistan. Nessuno, al momento, paventa davvero l’invasione di un paese grande cinque volte l’Italia e con oltre 90 milioni di abitanti. Il caso della Libia di Gheddafi presenta un’altra prospettiva: un regime può cadere se i bombardamenti aerei (in quel caso, nel 2011, di USA, Gran Bretagna e Francia) si aggiungono a un’estesa ribellione già in essere. In Iran, al momento, non ve n’è traccia. In ogni caso, invasione di terra o ribellione autoctona da supportare sono condizioni necessarie, non sufficienti - potrebbero, in altre parole, non bastare.
In secondo luogo, è fondamentale considerare il tipo di regime che si vuole rovesciare. Gheddafi e Saddam avevano costruito strutture di potere verticistiche, centrate sulla loro persona, e con una base sociale vieppiù ristretta. L’Iran non gli assomiglia per niente. Negli anni, la Repubblica Islamica ha costruito un sistema di potere che non si basa sulla figura, per quanto importante, di Ali Khamenei. Il clero sciita nel suo insieme è stato affiancato da un poderoso apparato di sicurezza interno (che include i Pasdaran e i Basiji). Istituzioni come il Parlamento, l’Assemblea degli Esperti o il Consiglio dei Guardiani presentano un sistema politico complesso, articolato, dove non basta rimuovere il dittatore (come in Iraq) o un gruppo di guerriglieri dalle principali città (come in Afghanistan) per cambiare il regime. Non basta. Vari settori industriali (come l’industria pesante o bellica) e vari gruppi sociali (la piccola borghesia, i poveri nelle campagne) supportano ancora, per lo più, il regime. In altre parole, rovesciare un tale sistema di potere presenta difficoltà esponenzialmente più grosse di Iraq e Afghanistan.
Terza considerazione: se anche si riuscissero a superare i problemi fin qui esposti, chi viene dopo? Qui entriamo in una prospettiva ancora più complessa, che manifesta l’hybris insita nel concetto stesso di “cambio di regime” incoraggiato o imposto dall’esterno. Se si intende rimuovere gli ayatollah per quanto detto poc’anzi, ecco che ciò non implica assolutamente che un regime meno nemico di Israele o dell’Occidente li sostituisca. Oppure che un regime democratico si instauri a Teheran. Certo, possiamo considerarle come possibilità. Ma non come eventi probabili, men che meno certezze. Di più: chi ci dice che un regime democratico in Iran non sia comunque ostile ad Israele? La teoria della pace democratica (dove le democrazie non si fanno la guerra) è stata ampiamente contestata dopo aver raggiunto l’apice di popolarità negli anni ’90.
Questo discorso si allaccia all’ultimo punto. In nome di chi o che cosa un popolo, uno stato, una nazione, può dettare a un altro come vivere, quale sistema politico adottare? L’Iran vive da oltre quarant’anni sotto una dittatura feroce e oscena. Ma l’Iran esiste, come paese che si riconosce in una storia comune, da quasi tre millenni. La Repubblica Islamica, in questa prospettiva, è quasi un accidente storico. Gli Iraniani hanno un’alta opinione di sé e della loro storia. Anche coloro i quali - e sono milioni - detestano il regime hanno visto l’attacco di Israele come un attacco all’Iran, prima che un attacco agli ayatollah. E non possono dunque certo accogliere l’invito di Netanyahu quando questi predica da un pulpito che non gli possono mai riconoscere. Se cambio di regime ci sarà, verrà dall’interno. Basti ricordare che gli Iraniani hanno fatto due rivoluzioni nel solo Ventesimo secolo (1905 e 1979). Non hanno bisogno di inviti esteri perché gli si spieghi come devono stare al mondo.
*Docente universitario e ricercatore
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