Fiat in Italia, forse c’è meno nebbia

Forse c’è meno nebbia attorno alla principale casa automobilistica italiana, quella Fabbrica italiana automobili Torino (o Fiat) che appare ogni giorno di più la succursale della Chrysler americana, che pure da Fiat era stata rilevata. Perché è noto e conclamato che la multinazionale italo-americana fa soldi nelle Americhe (Usa, Brasile) e ne perde in Europa.Tutto ciò ha fatto temere che la presenza di Fiat in Italia fosse ormai agli sgoccioli. L’azienda ha investito molto in Polonia e, ultimamente, in Serbia. Ma anche a Pomigliano, alle porte di Napoli, mentre gli stabilimenti di Melfi e Termoli sono ancora molto buoni. Fiat produce pure a Cassino e nello storico stabilimento torinese di Mirafiori.Oddio, produce… Sono più le settimane di fermo attività, che quelle in cui si lavora. Il mercato automobilistico italiano - quello che più acquista Fiat e gli altri suoi marchi - è letteralmente crollato; produrre per lasciare sui piazzali l’invenduto, ha poco senso. «Investire cifre colossali per nuovi modelli destinati a non essere acquistati, pure», aveva detto l’amministratore delegato Sergio Marchionne non più tardi di qualche settimana fa.Considerazione assai logica, salvo che per un fatto: se e quando la crisi si attenuerà, Fiat non avrà nulla di nuovo da presentare al mercato. Quindi è semplicemente destinata a morire. Marchionne, forse pressato dall’esigenza di non dare per morto qualcosa che è ancora vivo e vegeto, ha rettificato nei giorni scorsi: non chiuderemo impianti produttivi in Italia, investiremo in 17 nuovi progetti da qui al 2016. C’è da credergli, con alcuni distinguo.Chiudere impianti che già esistono e che sono di proprietà, è sempre un passo difficile. Magari non sforneranno più Fiat o Lancia, bensì Chrysler, Jeep e motori multijet. Insomma, potrebbero cambiare pelle; ma il lavoro rimarrà. Sui 17 modelli… Beh, c’è sicuramente da fare le pulci a tale affermazione. Molti saranno restyling di modelli già esistenti; di nuovo - a quanto c’è parso di capire - ci sarà un fuoristrada tutto italiano e un’Alfa che si posizionerà a ridosso delle berline tedesche. Alfa Romeo dovrebbe essere fortemente rilanciata, mentre il marchio Lancia è destinato a scomparire. Gli ultimi modelli - auto americane ribattezzate Lancia - non funzionano qui da noi. Quanto a Fiat, diventerà il brand delle utilitarie del gruppo: da sempre le sa far bene, e 500, Panda e Punto sono modelli di successo.Ma parliamoci chiaro: tutto ciò è la strutturazione di una provvisorietà. I produttori europei o stanno facendo faville in quanto presenti in tutto il mondo (gruppo Volkswagen-Audi-Porsche, Mercedes, Bmw), o hanno già trovato nuovo padrone asiatico (Land Rover, Jaguar, Volvo), o sono in crisi mortale.Renault sta in piedi grazie ai profitti della controllata giapponese Nissan; Opel (tedesca ma di proprietà Gm) sta trattando in condizioni di grande debolezza la fusione con il gruppo Peugeot-Citroen, anch’esso in gravi difficoltà. Ci sono già ora licenziamenti e annunci di chiusura impianti.Insomma, tra tre anni assai probabilmente il panorama automobilistico sarà completamente diverso da oggi. E la stessa Fiat - che non trova partner in Europa - sta guardando con attenzione ad ulteriori alleanze in giro per il mondo. La giapponese Suzuki, ad esempio; anche per entrare nei mercati asiatici ora appannaggio di giapponesi, coreani e tedeschi. E Marchionne sta concludendo alleanze produttive pure in Russia e in India.Lasciamo stare i sentimentalismi retrò e voltiamo la testa in avanti. È importante che l’Italia rimanga nel settore auto non tanto per Fiat, ma per lo splendido indotto che comunque sta andando molto bene in tutto il mondo: Pirelli, Magneti Marelli, Brembo, le aziende di design, Iveco e moltissimo altro ancora. Qui non si tratta di capire che fine farà il signor Marchionne o la fabbrica di Mirafiori: qui c’è in ballo un pezzo consistente della nostra economia, e del nostro futuro. Ben venga quindi se Fiat - o qualunque cosa essa diventi - rimarrà ancorata ad un’Italia che ha bisogno di lavoro come il pane.

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