Se ti metti nei panni del nemico

Chapeau. Bisogna riconoscere che quello rivolto da Barack Obama, ai giovani di Gerusalemme, è stato un grande discorso. Coraggioso, sognatore e insieme molto concreto in un luogo del mondo dove sogni e concretezza, dove aspirazioni alte e drammaticità del reale si scontrano quotidianamente.Il Medio Oriente, e Gerusalemme, sono da tanti anni il fulcro di un conflitto continuo, latente o manifesto, segno di alcune grandi contraddizioni che funzionano da detonatore all’instabilità ben oltre i confini della regione. Il dialogo intermittente e la paura continua dominano le relazioni tra Israele e palestinesi e tra gli altri attori di una contrapposizione che ha connotati politici, religiosi, economici, militari. Dopo le grandi speranze dei processi di pace iniziati e mai finiti, adesso dominano le rabbie sopite di due popoli incapaci di vivere insieme, la realpolitik di governanti che gestiscono come possono l’ordinario, le minacce incrociate di bombe e reazioni, l’incubo del nucleare, la voglia di mostrare i muscoli. In questo contesto Barack Obama si è trovato a dover rilanciare qualche speranza, mosso probabilmente non solo da una spinta ideale - perché non riconoscerla? - ma anche dalla certezza che gli interessi in gioco nella regione sono ben superiori a quelli degli storici contendenti. Gli Usa sono il primo alleato di Israele e Obama l’ha ribadito. Ma senza avallare semplicemente le prospettive ringhiose di un governo che ha il primo pensiero alla difesa - senza qui sottovalutarla - di fronte alle minacce questa volta iraniane e che è pronto alle soluzioni più estreme, con la decisione di cui ha già dato prova in passato. No. Obama è andato al cuore della questione, tornando al sogno di un Paese pacificato, in cui due popoli - israeliani e palestinesi - possono e devono vivere insieme. Lo ha fatto con i giovani, che sono il futuro. Ha chiesto loro di guardare il mondo come vorrebbero che fosse. Ha chiesto ai ragazzi israeliani di guardare “con occhi palestinesi”, di mettersi nei panni dell’altro, del nemico, annullando così le distanze. Ha sottolineato le medesime aspirazioni di ventenni che stanno però da due parti diverse del muro - quello non solo simbolico, ma concretissimo, che divide i territori - e ha chiesto il coraggio di ai giovani di far sentire la loro voce al governo Netanyahu perché i politici le decisioni importanti le prendono - ha spiegato - se sono spinti dalla gente. Capire il mondo com’è e immaginarlo anche come dovrebbe essere. Osare il sogno della pace, che cerca strade per la mediazione perché “la pace è l’unico modo per garantire davvero la sicurezza. E la pace va negoziata”. Sogno e concretezza. C’è un respiro grande in questo discorso di Obama, applaudito come una rockstar dai giovani. C’è la consapevolezza che certo la politica è l’arte del compromesso e del possibile, ma sono i grandi disegni, le prospettive di ampio respiro, anche i sogni, a muovere davvero il mondo, come la storia dimostra spesso e come anche le vicende mediorientali e di Israele hanno mostrato in un passato da non scordare. C’è da augurarsi che la “lezione” di Obama non resti sterile. E magari offra spunti di riflessione anche per chi è relativamente lontano da Israele, per chi, come l’Italia e l’Europa, sta cercando nuovo slancio non solo per superare la crisi economica, ma soprattutto per disegnare una nuova società. I giovani e la loro passione sono una risorsa. A patto che chi ha le leve del potere in mano cerchi di essere alla loro altezza.

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