Un proto nel “gotha” del giornalismo

Ha frequentato prestigiose firme del giornalismo italiano e politici di razza, ma il lodigiano Marino Guercetti, classe 1934, lascia che i suoi occhi brillino quando parla del fiume e dei suggestivi, misteriosi, romantici scorci d’acqua: «Sin dall’infanzia – mi racconta, nella sua casa di Zelo Buon Persico - il fiume si è rivelato come parte del mio dna. Mio padre, che era nato nel 1900, era originario del Piacentino, si stava dall’altra parte del Po. Papà faceva il bracciante agricolo, e quando fece san Martino e si spostò nel Lodigiano, caricò tutta la sua roba in una barca e oltrepassò il fiume, approdando a Corte Sant’Andrea. La mia culla – mi raccontavano – fu legata alla barca, sopra una piccola zattera: forse questo ha contribuito a darmi il crisma dell’indipendenza sin da bambino».

In che senso?

«Eravamo dieci figli, io il quinto. Quando la mamma radunava la famiglia per la cena e contava i presenti alla tavolata, io non c’ero. Papà mi diceva sempre: tu sei un santangiulin, cioè sempre pronto all’affare, furbo. Stavo sempre da qualche altra parte, in casa di amici. Ma allora il paese fungeva come una grande famiglia allargata, ci si conosceva tutti quanti, e c’era un grande rispetto».

Dieci figli, famiglia dunque numerosa…

«Si stringeva la cinghia. In casa lavorava solo papà. Lui era un uomo serafico: bastava che ci fosse il piatto in tavola e la sigaretta dopo i pasti, ed era un uomo felice, poteva fischiettare allegramente per tutta la giornata. La mamma, invece, era un’amministratrice perfetta delle risorse finanziarie: quel poco che avevamo, doveva bastare per tutti, ed in effetti era sufficiente».

Cosa ha imparato dai suoi?

«Da mio padre, l’onestà. Mi diceva sempre: Marino, non toccare mai la roba degli altri. Lui è sempre stato sotto padrone. L’unico autorizzato a stare nella corte per 24 ore al giorno, verificando anche che non avvenissero ruberie di granturco, fieno, frumento. Morì a 59 anni, tragicamente. Cadde da un fienile. Mia madre rimase in silenzio per alcuni giorni, come pietrificata. Poi si rimboccò le maniche. La povertà rafforza la persona, insegna a non fare tragedie. La vita addestra a fronteggiare anche le cose brutte. Ecco, dalla mamma ho imparato la perseveranza».

Mi diceva dell’Adda: è stata una costante della sua infanzia…

«Ricordo le colonie a Bisnate, al di là del fiume c’è Spino D’Adda. Sembravano mondi diversi, e ne rimanevo affascinato. Fare il bagno nel fiume era fantastico, ma era ancora un’altra realtà: c’erano le spiagge, a Cassanello, l’acqua gelida, pulita e trasparente».

Perché quest’ambiente è cambiato?

«Credo per via dell’abbondono da parte della gente. Si veniva, una volta, persino da Milano. Poi si è modificato il modo di vivere il proprio tempo libero: il fiume ha smesso di essere patrimonio di una comunità. A me, però, è rimasto nel cuore: pensi che mi dichiarai a mia moglie mentre passeggiavamo in riva al fiume. Un amore che dura da una vita, che mi reso felice, e padre di due figli maschi».

Lei ha quale età ha cominciato a lavorare?

«A 15 anni; a me sarebbe piaciuto continuare gli studi, ma mia madre non volle. Mi spiegò che nessuno dei miei fratelli più grandi aveva proseguito con i libri, perché c’era da aiutare le finanze di casa. Era il suo senso di uguaglianza. Compresi la motivazione».

Ha un ricordo particolare dei suoi trascorsi scolastici?

«Più che altro una figura: la maestra delle elementari Laura Codecasa, insegnante attenta ai singoli bisogni degli alunni: sapeva leggerci, dentro, come libri aperti».

Più o meno siamo alla fine degli anni Quaranta…

«Sì. La guerra era finita da poco, c’era la voglia di rimettere tutto in moto. Un mio fratello era andato al fronte, partito sin dall’inizio del conflitto, rientrò nel 1945. Era stato in Croazia, poi prigioniero in Germania. Non avevamo mai avuto sue notizie. Non una lettera, niente! Nel frattempo, trovò in casa due nuovi fratellini ad attenderlo».

Ha suoi ricordi personali della guerra?

«Sì, ad esempio la colonna del tedeschi che si ritiravano verso il Brennero. La guidava l’onorevole Arcaini, a garanzia che non vi sarebbero state rappresaglie: con le mani invitava la popolazione a mantenere la calma. Quando passò il testimone, nei dintorni di Spino d’Adda, la colonna fu attaccata, i tedeschi reagirono e vi furono tre morti fra i civili. Via loro, arrivarono i cecoslovacchi: vennero proprio a stare a casa nostra, realizzando, con le radio trasmittenti, una postazione come centralino. Si fermarono sei mesi. E poi gli americani, fantastici».

Perché fantastici?

«Ricordo un episodio particolare. Arrivarono in piazza e prepararono il caffè. Un soldato statunitense mi chiese di fargli avere delle uova e mi diede i soldi. Portandogliele, gli tesi anche il resto, ma lui mi invitò a tenerlo come mancia. Erano tantissimi soldi. Ecco, gli americani proposero un senso del benessere, che neppure immaginavamo».

Dicevamo del lavoro…

«Cominciai come fattorino, a Milano, in una tipografia che realizzava il retro delle cartoline postali, quelle turistiche. E lì, osservando, imparai il mestiere. Quando il tecnico andò militare la proprietà era molto preoccupata: mi offrii di sostituirlo, e il titolare rimase a bocca aperta per la mia bravura. M’iscrissi ad una scuola per tipografi e presi il diploma».

Aveva trovato la sua strada…

«Andai a lavorare al Palazzo dei Giornali, dove si stampavano alcuni quotidiani, come L’Avanti, L’Unità, il Corriere Lombardo, anche la Gazzetta dello Sport, più tantissimi rotocalchi. Imparai a fare il compositore, in termici tecnici si dice proto, quello che dà i titoli e impagina le celle degli articoli, e frequentai un’apposita scuola per un biennio. Ero stimato. Un giorno il mio capo mi disse di andare a lavorare per un giornalista che fondava un quotidiano e che voleva un proto d’esperienza che guidasse, nella fase di avvio, la sua squadra di tecnici».

Chi era quel direttore?

«Indro Montanelli. Personaggio unico, schietto, burbero e al tempo stesso paterno. Del suo Giornale Nuovo seguiva tutto, dalla prima all’ultima riga. Ricordo che una volta non gradì un occhiello, la riga che si mette sopra al titolo: scatenò una miriade di parolacce e bestemmie. A quattr’occhi gli dissi che ero cattolico e che non potevo accettare quei modi. Si scusò, dandomi la mano, e mi promise che, davanti a me, non avrebbe più bestemmiato. Mantenne la parola».

Avviato il quotidiano di Montanelli, tornò al Palazzo dei Giornali?

«Sì, e mi fu proposto di assumere l’incarico di direttore dell’azienda. Una grande soddisfazione: avevo tantissimi dipendenti, cercavamo di essere una squadra al servizio dell’informazione».

Non erano tempi facili per Milano…

«Non lo erano affatto. Gli anni di piombo pesavano come una cappa asfissiante. Una sera venne da noi un terrorista di destra, noto con il soprannome di Mammarosa, cercava i redattori de L’Avanti, voleva buttare tutto per aria. Gli parlai, spiegandogli che non avrebbe trovato nessuno di quelli che cercava. Lo convinsi ad andare via».

I giornalisti erano spesso nel mirino dei terroristi…

«Ricordo Walter Tobagi. Eravamo amici, un ragazzo composto, serio, responsabile e pieno di idee. Il suo assassinio fu un colpo tremendo».

Assieme al lavoro, lei ha accompagnato la passione per la politica...

«Avvenne per caso. Una sera, con amici, si era in oratorio e chiedemmo a don Piero Grignani quale fosse l’espressione più bella della politica. La democrazia, ci disse; perché pur essendo la più valida è anche la più difficile da realizzare. Interpretai questa osservazione come uno sprone all’impegno. Presi la tessera della Democrazia Cristiana».

Nella Dc c’era il buono ed il brutto della politica…

«Un ambiente non facile. Io passavo per contestatore e ribelle, oggi si direbbe un moralizzatore. Frequentai da vicino l’onorevole Marcora, che fu mio testimone di nozze».

Lei è stato anche sindaco di Zelo Buon Persico…

«Dal 1970 per i cinque anni successivi. Poi sono stato nel Comitato di Gestione dell’Ospedale di Lodi, agli inizi degli anni Ottanta: conobbi Antonio Corsano, primario di pneumologia, una persona capace e lungimirante».

C’è un merito che si ascrive come amministratore del paese?

«Una volta restammo senza medico condotto. Convinsi il dottor Giovanni Vassura a spostarsi dalla Brianza, venendo a Zelo Buon Persico: s’integrò benissimo con la sua famiglia, e noi eravamo felici di averlo nella nostra comunità per la sua capacità come per l’immensa umanità che lo caratterizzava».

Mi dà un’immagine del Novecento?

«Si lavorava dal lunedì al sabato. E la domenica ci si riposava. Le sembra uguale anche oggi?».

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