Quel paese dei balocchi

in riva al Po

Entrate dentro e perdetevi in un salutare viaggio a ritroso nel tempo e nei ricordi. Fatelo, anche se può sembrare imbarazzante starsene lì, come ipnotizzati, a rimirare vecchi pupazzi in gomma di Paperino, macchine di latta del secolo scorso, soldatini di stagno, pupazzi e trenini. Il Museo del giocattolo e del bambino di Santo Stefano è - per noi adulti - una zona franca. Uno spazio neutrale. Si entra e ci si dimentica, per qualche ora, del lavoro, delle seccature. Dentro, duemila giocattoli di ogni nazione e cultura: il più antico è il modellino di un cavaliere in legno dipinto e piombo della fine del Settecento, realizzato da uno sconosciuto artigiano della Val Gardena. Un artigiano che conosceva e applicava i principi della fisica: grazie a un contrappeso, cavallo e cavaliere oscillano con un movimento che - nella fantasia dell’altrettanto sconosciuto bambino a cui fu regalato - richiamava quello di una cavalcata. È questa l’altra sorpresa. I giocattoli di cento, duecento anni fa si muovevano, saltavano, giravano su se stessi e lo fanno tuttora. Molle, contrappesi e meccanismi che utilizzano la gravità e altri principi della fisica come la forza centrifuga o le peculiarità del vapore, del calore e della luce diventavano nelle mani degli artigiani piccoli capolavori di meccanica. Come il quadro animato della “Maestrina dalla penna rossa” del libro “Cuore”: qualche giro di molla e il volto della maestra, composto da differenti piani sovrapposti pitturati, passa dal sorriso allo sguardo accigliato. Un paese dei balocchi, insomma, come quello di Pinocchio (qui ritratto e scolpito in tutte le forme) in cui ci si cala però senza sensi di colpa. A guidare il cronista è Paolo Franzini Tibaldeo, fondatore del museo creato in quella che era una stazione di posta con locanda, di proprietà della sua famiglia. La moglie Luisa, durante la visita del cronista, è impegnata nell’accoglienza di una scolaresca di Codogno. Franzini Tibaldeo (con la moglie) meriterebbe un articolo a sé: discendente del generale Edoardo Franzini Tibaldeo (in una foto del 1940 è dietro a Mussolini durante la rassegna a un reparto di bersaglieri ciclisti: i soldatini di entrambi, realizzati dalla fabbrica Confalonieri di Milano, sono esposti in una teca al primo piano) e amico di Alda Merini (il museo conserva alcune poesie originali dedicategli dalla poetessa milanese morta nel 2009), ha deciso di dedicarsi a tempo pieno a questo progetto nel 1953. Avvenne quando entrò (perdendocisi dentro) nella “stanza dei balocchi” della casa di famiglia. La prima sede del museo, nato dai giocattoli trovati in quella stanza e da altri raccolti girando per anni l’Europa in camper (oggi sono circa 4mila divisi tra Santo Stefano e il museo gemello di Cormano, in provincia di Milano) è ai Martinitt, storica istituzione milanese nata nel XVI secolo per ospitare gli orfani. La sede successiva è in un locale affacciato sul Naviglio, a Milano. Il giorno dell’inaugurazione a tagliare il nastro arrivò l’artista Bruno Munari (il designer, morto nel 1998, donò al museo la scimmietta in gommapiuma realizzata per la Pirelli) poi a lungo componente del comitato scientifico del museo. Alle sue spalle, nella foto in bianco e nero di quel giorno, si intravede un giovanissimo Philippe Daverio. In anni recenti ecco poi lo sdoppiamento della collezione fra il museo di Santo Stefano e quello di Cormano. Nel frattempo arrivano l’attenzione di studiosi e studenti (diverse tesi di laurea sono nate fra queste mura), annulli filatelici, articoli di giornali, migliaia di visitatori e il riconoscimento ufficiale della Regione Lombardia. «Siamo l’unico museo del Lodigiano a poterci fregiare di questo titolo» dice Franzini Tibaldeo. Di certo resterà unico nella memoria dei piccoli alunni della scuola di Codogno, ipnotizzati dai giocattoli messi in movimento dai due padroni di casa: l’insegna di un negozio con una bambina che scrive su una lavagna, una corsa di cavalli, un teatrino di ombre cinesi, un pupazzo che scende le scale spingendo una carriola piena di sabbia. Filo di ferro, latta litografata, legno dipinto, cartone. Con questo si divertivano - e tanto - i nostri bisnonni, gente che ha fatto la guerra. Altro che iPad.

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