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Giovedì 05 Maggio 2016
Palazzo Calderari, il gioiello dimenticato: dietro la rinascita c’è la famiglia Tarantola
Da fuori, arrivando dalla provinciale, manco te ne accorgi di quanto sia bello. Di palazzo Calderari la prima cosa che noti è il furgone Daily Iveco da muratore parcheggiato davanti alla facciata e l’infilata di garage su un lato del piazzale. In uno dei garage, aperto, qualcuno ha piazzato un cassonetto della spazzatura. Ci devi entrare dentro, a palazzo Calderari, per capire quanto sia bello e dimenticato questo tesoro dell’architettura lodigiana che i Tarantola, una famiglia di impresari edili originari del Milanese, ha comprato e riportato all’antica bellezza con un restauro durato dieci anni. L’incontro, come nelle migliori storie, avviene quasi per caso. «La mia è una famiglia di costruttori. Mio nonno Carlo era capomastro poi si mise per conto proprio. La prima prova ufficiale dell’esistenza della sua impresa è datata 1922 - spiega il nipote di Carlo, nostra guida nella visita all’edificio storico -. Negli anni Settanta e Ottanta mio padre Aristide (deceduto due anni fa, ndr) e i suoi fratelli Vincenzo e Attilio fecero numerosi lavori nel Lodigiano in quanto vinsero alcuni appalti dell’Ospedale Maggiore di Milano che qui aveva e ha numerose cascine». Ai primi anni Novanta il palazzo, dopo una lunga serie di passaggi, è di proprietà delle suore Canossiane di Lodi che, dopo averlo adibito a istituto, decidono di venderlo. La struttura è malmessa. In molti saloni i soffitti sono puntellati. Parte del tetto è collassata. In varie stanze gli affreschi sono stati coperti da strati di pittura. I mattoni in cotto del 1600 sono stati sostituiti da mattonelle in graniglia. Diversi camini e una balaustra monumentale sono andati persi per sempre, forse venduti. I fratelli Tarantola sono chiamati per fare un preventivo da una parente, anch’essa suora Canossiana. Il potenziale cliente legge il preventivo dei lavori formulato dai tre fratelli e si defila. Nelle teste di Aristide, Vincenzo e Attilio comincia a farsi strada un progetto folle: acquistare il palazzo e sistemarlo. Tanto folle da diventare realtà. Nel 1997 si firma il rogito. I lavori iniziano pressoché subito.
«Abbiamo messo insieme le nostra competenze - spiega il nostro anfitrione -: l’esperienza di mio padre e dei suoi fratelli, quella di altri famigliari che sono architetti, ingegneri e laureati in Belle Arti...». L’elenco dei lavori snocciolato è da capogiro. Basti pensare che tutte le travi che reggono il soffitto a cassettoni del primo piano, in legno deteriorato, sono state rimosse e sostituite con travi in acciaio (sorvoliamo sul lavoro di puntellatura necessario per ogni singola sostituzione) e successivamente ricoperte da pannelli di legno su cui sono state riportate le preesistenti decorazioni, copiate centimetro per centimetro su fogli di carta velina. Un lavoro a cui la Soprintendenza non ha potuto dire di no. L’attuale destinazione del palazzo, dato in affitto per matrimoni e feste (ma ci hanno girato anche una puntata di Master Chef e alcune produzioni Mediaset), necessita infatti di una struttura in grado di sopportare notevoli pesi: «Siamo arrivati ad avere eventi con un migliaio di invitati» ci viene spiegato. Parte dell’edificio a pianta quadrangolare (l’ex parte colonica) è invece stata destinata ad abitazioni, circa 25, date in affitto. La parte nobile, usata per i matrimoni, è un susseguirsi di sale e saloni decorati da affreschi di impostazione “quadriturista” di epoca barocca. Non manca una piccola cappella, tutt’ora consacrata. Al primo piano la maestosa sala delle Feste (più di 11 metri di altezza) è un capolavoro di affreschi e decorazioni, comparsi dopo la rimozione di mezzo centimetro di pittura muraria. Qui le nudità delle figure erano state coperte dalle suore e sotto la cupola era stato dipinto un grande occhio. Il finale della visita riserva una sorpresa, emblematica del rapporto (spesso freddo, sovente inesistente) di realtà come queste con le persone, il territorio e le amministrazioni locali. Di fianco al cancello di ingresso c’è l’accesso a un ampio locale: un unico volume aperto dal pavimento al soffitto e pareti con mattoni a vista. La conformazione delle finestre fa pensare a un granaio. La presenza di basamenti in granito a livello del pavimento (in cui erano innestati pali) e di camini su tre dei quattro angoli rivela un differente uso successivo, forse come conceria. Oggi funge da magazzino. «Quando partimmo con i lavori proponemmo questo locale all’amministrazione comunale dell’epoca per ricavarne una biblioteca pubblica» ci viene detto. Il locale è di una bellezza senza tempo. Fossimo in Trentino o in Alto Adige un Comune ci avrebbe tirato fuori un museo etnografico o una sala multimediale. Ma siamo nel Lodigiano: nessuno ha mai risposto.
Fabrizio Tummolillo
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