Meteo e veleni, un’altra annata nera per il miele nel Lodigiano

Una brutta, bruttissima annata per le preziose “operaie” del miele. Come non se ne vedevano da almeno cinquant’anni. La produzione si è ridotta del 50 per cento, nel Lodigiano e così negli alveari di tutto lo Stivale (salvo qualche eccezione che pure si è verificata) e, come se non bastasse, le api sono più deboli. A dispetto di tutto quanto è stato detto e scritto fino a questo momento, gli apicoltori ci tengono a sottolineare a gran voce due aspetti: non è vero che le api sono morte o “spacciate”. E non è vero che nel 2016 il miele d’acacia è scomparso dall’Italia: poco ma c’è.

Che cosa è successo davvero quest’anno? «Nessuno di noi conosce le cause - dice Massimiliano Fasoli, apicoltore di Mairago e consigliere Fai per la Lombardia -. Di certo lo sbalzo climatico ha avuto un impatto, in inverno ci sono state temperature sopra la media e in agosto temperature al di sotto. C’è poi un altro aspetto: la diffusione massiccia della monocoltura in agricoltura fa sì che ci sia un solo tipo di fiore, spesso non appetibile per le api, le quali hanno meno varietà a disposizione. Senza contare gli inquinanti. Al di là della scarsa produzione del miele, che questa volta a differenza di altre annate balorde è durata praticamente tutta la stagione e ha coinvolto diverse fioriture (acacia, millefiori), bisogna considerare che le api hanno meno vitalità perché mangiano meno: hanno poche forze, il loro raggio d’azione diminuisce, muoiono prima e fanno più fatica a reagire alle malattie. L’auspicio è che le istituzioni mettano gli agricoltori nelle condizioni di alternare le colture per favorire le api e gli altri insetti, con piante in grado di produrre nettare e polline».

L’ape regina per deporre le uova ha bisogno che tutta la famiglia sia ben nutrita. Nonostante il nomadismo praticato in azienda per raggiungere le prealpi lombarde, questa volta anche in quelle zone il maltempo ha fatto sì che si producesse molto meno.

Fasoli ricorda che il miele è un prodotto naturale, non subisce lavorazioni. Sono gli apicoltori a garantire la sopravvivenza di questo prodotto e a prendersi cura delle operaie giallo-marroni.

La concorrenza dall’estero - Est Europa, Cina, Sudamerica - c’è ed è agguerrita, la Fai sottolinea l’importanza dell’etichetta che indichi l’origine del prodotto con la dicitura “miele italiano”.

Simone Fornaroli ha un’attività a Graffignana e definisce l’annata «disastrosa», nel suo caso soprattutto per quanto riguarda il “millefiori”, tutto questo a dispetto degli sforzi fatti per migliorare la situazione: «Ho cercato di creare l’habitat adatto alle api - spiega -, per esempio attraverso le zucche che sono ricche di polline, fondamentale per la covata. Ho tentato di far aver loro del nettare fresco».

La “musica” purtroppo non cambia sulle colline di San Colombano, Giancarlo Tosi della cooperativa I Germogli parla di un’annata difficile e triste: «Mi sono confrontato con altri associati - racconta Tosi, che fa parte di Api Lombardia -, la produzione è scarsa, forse questo è l’anno peggiore degli ultimi 35. Le api non sono riuscite a produrre il miele per il loro sostentamento, sono deboli e in questo modo fanno anche fatica a superare le malattie.È chiaro che l’agricoltura intensiva, e l’inquinamento, non ci aiutano».

Per gli apicoltori, però, a differenza di altre categorie, è praticamente impossibile dimostrare i danni subiti e, di conseguenza, ricevere dei contributi. In ogni caso, lanciano un “sos”, nella speranza che ci sia più sensibilità nei confronti delle preziose operaie del miele.

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