
Pare impossibile che questo luogo una volta fosse un cupo avamposto su una palude grigiastra e malsana, una sorta di Fortezza Bastiani affacciata sugli odiati cremonesi. Impossibile davvero. Oggi la rocca di Maccastorna è un’oasi di pace fra alberi e case basse e ordinate a due passi dall’Adda, in una Bassa che sembra avere conservato la propria anima agricola. Non a caso la nuova vita del castello (ma è meglio chiamarlo “rocca”, poi vedremo il perché) è legata a doppio filo all’azienda agricola della famiglia Biancardi, proprietaria dell’edificio e dei campi attorno dalla fine dell’Ottocento. A ricevere cronista e fotografo (il fidato Paolo Ribolini) è la signora Giuliana, dal 1973 moglie di Antonio Biancardi, notissimo imprenditore (in svariati settori) della Bassa, e felicissima lodigiana “di acquisizione”. È lei, milanese di origine (ma la famiglia ha radici tra Veneto e Friuli), ad aprire alcuni saloni dell’edificio: «Che, più correttamente, va definito “rocca” in quanto a uso prettamente militare». Non un castello quindi (magari trasformato in palazzo nobiliare in seguito, ma non in questo caso) dove risiedeva un feudatario o una corte, ma un vero e proprio fortilizio di frontiera affacciato sul Cremonese, territorio ostile. «Ostile era anche l’ambiente - racconta la signora Biancardi -. Qui attorno c’erano paludi e acquitrini bonificati solo ai primi del Novecento per ricavarne terre da destinare all’agricoltura». L’acqua è tornata comunque a bussare alle porte della rocca, negli anni a seguire: l’Adda è poco distante da qui e in occasione di alcune piene è arrivato a lambirla come nel 1917, anno di cui rimane a testimonianza la foto di una barca che naviga davanti al cancello d’ingresso. Della lunga e travagliata storia della rocca (la trovate, in estrema sintesi, nel box a lato) l’episodio rimasto impresso nella memoria, nemmeno a dirlo, è l’eccidio che si consumò nella notte del 24 luglio 1406, quando il crudele condottiero Cabrino Fondulo, signore della Rocca, fece strage di Carlo Cavalcabò e degli altri nobili di Cremona, da lui ospitati, per diventare signore della città.
Da allora la tradizione vuole che, in occasione della ricorrenza, la notte si sentano i loro lamenti levarsi dalle stanze della rocca. «Quando venni ad abitare qui nel 1982 un’anziana del paese mi sconsigliò proprio per questo motivo - racconta la signora Giuliana con un sorriso -. Se abbia mai sentito lamenti e gemiti? Confesso di no...».
Oggi a fare paura sono più che altro i piccioni, nemici giurati di castelli ed edifici storici: pare niente ma fra guano e coppi mossi alla ricerca di un posto per il nido (con conseguenti infiltrazioni quando piove) sono capaci di danni incalcolabili. Ci è stato detto in occasione di molte visite a castelli lodigiani da parte di chi, come nel caso della famiglia Biancardi, ha speso fior di milioni per portare all’attuale splendore questi edifici. Qui a Maccastorna le basi per la rinascita della rocca le misero il nonno e il padre di Antonio Biancardi: il primo nel 1899 acquistò le terre e il castello dalla famiglia Bevilacqua, precedente proprietaria, e il secondo proseguì l’imponente lavoro di bonifica dei terreni. Un’opera che mise le basi per la nascita e il consolidamento dell’azienda agricola di famiglia a cui si è poi aggiunto l’allevamento di bovini da carne di razza Limousine, gestito con un attento lavoro di selezione e alta genetica: Matteo e Carlo, figli della signora, sioccupano di allevamento e coltivazioni. Il restauro del castello è stata l’altra attività portata avanti dalle varie generazioni. Il succedersi di battaglie, padroni, proprietari e utilizzi differenti (nel dopoguerra ospitò il Comune e le scuole, in epoche più recenti vi furono ricavate stalle e ricoveri agricoli) lo ha svuotato di reperti e oggetti antichi mentre i restauri hanno permesso di appurare l’assenza di affreschi di pregio a eccezione di alcuni frammenti, tra cui alcuni di probabile origine trecentesca legati alla presenza della signoria dei Vicemala. Un’assenza che, se letta in controluce, conferma l’origine prettamente militare di questo edificio. Origine confermata da un salone al primo piano, probabilmente un carcere per prigionieri di un certo rango, e dalle possenti mura che inglobano quello che resta delle torri (erano otto) di guardia. Al termine dell’intervista, davanti a un caffè, dalla stanza di fianco a quella in cui ci troviamo arrivano i gorgheggi di Giorgio, 11 mesi, figlio di Carlo. Lui e Nadeja (appena un mese e mezzo, figlia di Matteo), rappresentano l’ultima generazione dei Biancardi. La signora Giuliana si dilunga volentieri a parlarne con l’orgoglio della nonna. Ma questa è un’altra storia.
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