L’ex ribelle non ha perso lo smalto: «Allora tutti avevamo un’occasione»

Il signor Annibale Torchiani, lodigiano di 90 anni, vanta un’esperienza di vita lunga quanto la sua età. Schietto e franco, da qualche tempo ha innescato una silente polemica con lo Stato, che non gli vuole riconoscere la sua non autosufficienza: «Per lo Stato, sarei ancora in grado di uscire e di muovermi: lei che ne pensa? - commenta con amarezza -; così mi sono auto recluso: so di non essere più autonomo, e da tre anni avrò messo il naso fuori di casa poche volte, sempre accompagnato da mio figlio, e solo per recarmi in ospedale per visite mediche».

Il cognome Torchiani mi dice qualcosa...

«Può essere. Mio nonno fu fittabile alla cascina Vittoria di Turano Lodigiano. Altri Torchiani, invece, fratelli del nonno, andarono a prete. Ho anche un cugino sacerdote, don Mauro Milesi, credo che anche lui adesso sia avanti con l’età. Ma la figura più prestigiosa fu certamente quella di don Alessandro».

Chi era? E perché prestigiosa?

«Faceva il parroco a San Fiorano e tutti gli riconoscevano un assoluto disinteresse: quello che aveva lo spendeva per le esigenze della chiesa. Lo volevano santo, tanto che alla sua morte le sue spoglie furono sepolte all’interno dell’edificio religioso».

È sicuro che sia sepolto lì?

«Sono sicurissimo. Può controllare quando vuole. È stato, d’altra parte, un giusto riconoscimento al suo incondizionato amore per la parrocchiale di San Fiorano. E poi era un uomo di una bontà fuori dal comune».

Anche suo padre, come il nonno, fece l’agricoltore?

«No. Papà, che si chiamava Carlo, aveva una panetteria, qui a Lodi, in corso Roma; successivamente vi aggiunse un laboratorio di produzione della pasta, nei dintorni dell’Oratorio San Luigi. Morì giovane, nel 1931, in tragiche circostanze».

Cosa accadde?

«Un incidente stradale. Finì sotto una macchina. Avevo 6 anni, e la vita mi presentava un primo conto. Dall’agiatezza si passò alla precarietà».

Immagino...

«No, non può immaginare. Mia madre, che si chiamava Matilde Madonini, con la perdita del marito, andò in crisi; lei era una donna all’antica: dedita al consorte, ai figli, quella disgrazia le provocò un’infinita sofferenza. Oltre a me, c’era un’altra figlia: una sorellina che aveva un anno soltanto».

La mamma reagì comunque?

«Dopo qualche tempo, con i soldi dell’assicurazione acquistò un paio di macchine da cucire e fece la magliaia. Ma io finii all’orfanotrofio di Lodi e vi rimasi per sette anni».

Perse il legame con la mamma?

«No. C’erano bambini senza genitori, che poi venivano adottati, altri che avevano un solo genitore, altri provenienti da famiglie disagiate. Mia madre veniva a trovarmi tutte le domeniche ed un pomeriggio alla settimana potevo andare a casa, accompagnato dagli assistenti della struttura».

Sette anni. Un periodo lungo.

«È vero. Ma ho soltanto ricordi positivi. Il presidente era un ex orfano, una persona davvero perbene, mi pare si chiamasse Gagliani. C’era un direttore anch’egli molto umano. Le suore, i collaboratori. Eravamo trattati molto bene. D’estate ci mandavano pure in villeggiatura».

Dove?

«Sulle montagne bergamasche. C’era una struttura messa a disposizione dalla signora Comizzoli di Lodi. Successivamente fu destinata per dare ospitalità alle ragazzi madri. Anche questo testimonia di un particolare evidente...».

Quale?

«La solidarietà della gente di Lodi. Gli ortolani, ad esempio, ci riempivano di frutta e verdura. Indubbiamente, gli orfani, i bambini poveri, venivamo guardati con affetto dai cittadini. Si percepiva la generosità, quella concreta. Credo che questa sia stata una caratteristica importante del Novecento: la gente sapeva essere altruista».

C’è qualche figura che ricorda in particolare tra i compagni d’orfanotrofio?

«Guardi, malgrado la mia permanenza sia stata lunga, generalmente si entrava e si usciva con facilità dall’istituto. Non c’era il tempo di stringere legami profondi. Però mi ricordo di un compagno che di cognome faceva Ferrari, ma il nome non mi sovviene: era bravissimo nel dipingere, e aveva un talento straordinario, privilegiava le opere di carattere religioso; gli fu trovato un lavoro a Milano. Spero che non abbia smesso di dipingere, chissà...».

Ma chi gli trovò il lavoro?

«I dirigenti dell’orfanotrofio. Eravamo seguiti in tutto: ci facevano studiare e si preoccupavano del nostro futuro. Io ha fatto sino alla terza commerciale e mentre ero lì ho imparato a lavorare in tipografia, che gestita privatamente si trovava dentro l’istituto: si stampavano il Cittadino ed una rivista sportiva, di cui però non ricordo la testata».

Fin quando rimase in orfanotrofio?

«Sino al 1938. Alla soglia dei 13 anni, occorreva lasciare l’istituto, per regolamento. Mia madre mi riprese in casa. Provò ancora a farmi studiare, mandandomi a sue spese da una professoressa: sperava che divenissi ragioniere. Però nel frattempo lavoravo anche da uno zio, Egidio Madonini, fratello della mamma, che aveva un’officina meccanica. La guerra mise fine a tutto».

In che senso?

«La mamma aveva paura dei bombardamenti e ci trasferimmo in campagna. Non aveva tutti i torti. Proprio mio zio Egidio, mentre era alla guida di un camion, fu mitragliato da un aereo e ci rimise la vita. Anni difficili. Poi arrivò l’armistizio, io avevo 18 anni».

Cosa fece?

«Mi arruolai nella Repubblica di Salò. Il tempo di capire che era una grossa, inutile perdita di tempo; facevo parte della fanfara militare perché in orfanotrofio avevo anche imparato a suonare il trombone. Mi creda: l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana fu un’esperienza talmente inutile che me ne tornai di tutta corsa a Lodi...».

Ebbe problemi con gli avversari politici?

«Personalmente no. Solo scaramucce dialettiche, nulla di che».

Quindi cosa fece?

«Mi cercai un lavoro. Vede, il Novecento ha avuto anche questo di buono: un’occasione la offriva a tutti, e con questa la possibilità di avere un tetto sopra la testa, e un piatto di minestra. Molti di noi vivevano alla buona, ma non c’era la povertà di oggi».

Che lavoro svolse?

«Inizialmente feci il meccanico, qui a Lodi, nell’officina del signor Quarto. Poi cambiai tantissime volte: certe volte privilegiavo più i luoghi dove mi trovavo a vivere, che non il lavoro in sè. Ho assecondato il mio spirito giovanile, molto ribelle...».

Una sorta di ribellione alle difficoltà dell‘infanzia?

«Non credo. Penso ad un’indole innata. Però intorno ai trent’anni ho messo la testa a posto. Conobbi una donna, di cui m’innamorai. Una svizzera, che lavorava in un bar di Lodi. Era una bellissima donna, e da lei ho avuto mio figlio. Ma il matrimonio, poco dopo, rivelò poi le nostre diversità: lei volle tornare in Svizzera».

E suo figlio?

«Restò con me, e a crescerlo mi aiutò mia madre. Nel frattempo io avevo trovato un lavoro fisso come mugnaio a Milano. Lo stabilimento era vicino a corso Lodi: macinavamo 800 quintali di frumento al giorno. Dodici ore ininterrotte di attività. Vi rimasi per ventisei anni: un record per me. Ma il sabato e la domenica, per arrotondare, ho sempre fatto il barman. Mi veniva riconosciuta una certa bravura, sa?».

Quindi lei ha vissuto più a Milano che a Lodi?

«Per tanti anni, sono stato un pendolare del fine settimana. Ma Lodi mi ha sempre rigenerato. Una volta era una città straordinaria, dove la ricchezza non è mai stata opulenza, ma comunque evidente. Ricordo i possidenti terrieri: misurati, ma belli a vedersi, quando si incontravano in piazza durante i giorni di mercato».

Era la ricchezza degli altri...

«Si stava tutti un po’ meglio. Anche l’ambiente appariva tanto diverso: non può immaginare cos’era l’Adda.... Era il nostro mare. E poi si ballava tantissimo: c’erano sei stabilimenti per la danza. E poi di recente so che c’è da avere paura ad attraversare certe strade di Lodi perché mal frequentate. Si è ostaggi della criminalità e della paura. Nel passato, invece, sapevamo difendere la nostra comunità cittadina, e se qualcuno faceva il gradasso se la passava male».

Signor Annibale, a novant’anni si hanno ancora sogni dentro al cassetto?

«A me piacerebbe scrivere la mia storia. Ogni tanto prendo qualche appunto. Sa qual è la verità?».

Quale?

«Dalla vita non si scappa. I conti si pagano sempre, prima o poi, e con prezzi salati. Un altro mio sogno sarebbe stato quello di fare il giornalista, raccontando le storie della gente che viveva sui marciapiedi e che non possiede nulla dietro cui nascondersi. A me è capitato di frequentarle persone così, uomini e donne da marciapiede. E non le ho mai dimenticate».

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