L’elegante sindacalista cantastorie che non conosce la parola “riposo”

Valter Vho, classe 1929, è un uomo che non ha mai amato oziare. Ancora adesso, per diletto, gli capita di prestare servizio presso un rinomato locale del Lodigiano: si limita ad accompagnare gli avventori al tavolo, a consigliare il vino da abbinare ai pasti, stappandone il turacciolo e annusando il sughero con la competenza di un navigato sommelier.

La sua eleganza è impeccabile. Il suo stile ammirevole. Scopro pure che è un raffinato poeta e un cantastorie d’eccezione: «Ho un cognome impegnativo - mi spiega, accorciando i convenevoli delle prime battute - che forse ha segnato il mio destino: Vho è toponimo di una cittadina, e anche di una frazione attigua a Piadena; quest’ultima fu fondata dagli austriaci, che imposero a coloro che vi andavano ad abitare l’obbligo dell’istruzione scolastica per i propri figli. Anche a me la cultura è sempre piaciuta».

Lei dove è nato?

«Le mie origini sono a Castelleone, in provincia di Cremona, sino all’età di dieci anni sono rimasto lì. Mio padre Giuseppe, tornato dalla Prima guerra mondiale, si era arruolato nel 1917 nella Guardia di finanza. Ma il suo mestiere era un altro: sapeva livellare i campi. Era speciale: allegro ed intelligentissimo. Possedeva una cultura da autodidatta, e nelle osterie radunava attorno a sé tanta gente, perché inventava storie fantastiche ed incredibili».

Papà optò poi per l’agricoltura?

«Fece il fattore; lo chiamavano perché aveva questa capacità di rendere i campi fertili: finito il lavoro, cambiava padrone. Alla fine aveva preso a fare il piccolo coltivatore diretto, a Mairago. Era quello un periodo molto strano per noi».

Come mai?

«Avevo un fratello, Duilio, che durante la Seconda guerra mondiale era stato marinaio. Un’esperienza perigliosa la sua: aveva fatto naufragio quattro volte. Nell’ultima circostanza lo presero prigioniero gli inglesi, con i quali collaborò. Alla fine della guerra, mentre gli altri soldati rientravano, di lui si erano perse le tracce. Lo davamo per morto. Nel 1948 rientrò. Non si reggeva in piedi. Per molto tempo rimase a letto, ma si ristabilì. Divenne impiegato comunale: una persona buona, istruita, disponibile verso il prossimo».

Capisco...

«Però, più in generale, era il destino che sembrava mettersi di traverso contro noi Vho. Nel 1950 scoppiò un pozzo di metano e distrusse la nostra casa. Ci crollò addosso il mondo. Ci spostammo a Basiasco, ma senza più convinzione. Poi avvenne un fatto straordinario...».

Quale?

«Un giorno ci trovammo alla porta Enrico Mattei e Alcide De Gasperi! Quest’ultimo era venuto in visita nel Lodigiano per verificare la funzionalità dei pozzi di metano. Mattei aveva sentito parlare di mio padre, di questa sua maestria nel livellare i terreni, e gli offrì il lavoro: ripristinare la funzionalità della terra, a seguito della costruzione di nuovi pozzi. Papà accettò. E risollevammo le nostre sorti. Lo aiutai sinchè lui non smise il lavoro».

Poi lei cosa fece?

«Mi spostai ad Abbadia Cerreto, optando per la fabbrica, e scegliendo il pendolarismo su Milano».

Che anno era?

«Il 1956. Avevo 27 anni. Abbadia Cerreto ero un paese abitato soltanto dalla gente nata qui; uno che arrivava da fuori veniva visto come un forestiero. A poco a poco mi sono integrato, ma è stato un processo lento. Mio figlio Eugenio oggi è vice sindaco: lui può dirsi inserito a pieno titolo».

Ad Abbadia Cerreto ci sono stati personaggi di grande rilievo: don Vittorio Soldati, ad esempio...

«Le confido che io dedico un’ora al giorno alla preghiera, e lui è uno dei due personaggi di Abbadia Cerreto sempre presente nei miei ricordi. Ma gli inizi non furono facili. Forse perché don Vittorio era un conservatore, ed io di sinistra. Oppure perché, spinto anche dal dottor Zanelli, un agricoltore di grande umanità, che come nessun altro sapeva cogliere il buono e il bello delle persone, io ero stato fra i fondatori della società sportiva di Abbadia, che don Vittorio inizialmente aveva osteggiato. Insomma ci fu qualche contrasto tra noi due».

Li superaste?

«Lo salutavo e lui zitto. Un giorno, rispose. Ci abbracciammo. Nacque tra noi un’amicizia meravigliosa. Don Vittorio ebbe molti meriti: rimodernò l’abbazia, la aprì alla gente. Era un uomo energico, concreto; sapeva stare dalla parte dei semplici, lui stesso non amava le adulazioni. Però, a volte, divideva; proprio perché era sincero, spontaneo e, sopratutto, diretto».

E l’altro personaggio che ricorda nelle preghiere chi è?

«Don Angelo Carioni. Un uomo di una bontà tremenda. Doveva campare mille anni uno così! Sapeva insegnare a tutti: ai bambini, come alle persone mature. Accoglieva con il sorriso. Si accorgeva di tutti: uno attento alla profondità dei gesti, con una naturalezza unica».

Di tanto in tanto ad Abbadia Cerreto si vedeva anche un certo Tognu Ferla: l’ha conosciuto?

«Tognu Ferla??!!! Diamine! Ma lui era di Cavenago d’Adda! Certo frequentava anche qui: era il boss della zona. Aveva trascorso una gioventù rissosa, e alla fine era un po’ malandato. Pretendeva di ottenere quello che desiderava, e se lo prendeva con le buone o con le cattive; se rispettato, sapeva a suo modo rispettare. Ecco, in fondo, oggi penso che lui, pur con modi sbagliati, cercasse solo questo: il rispetto».

Mi stava raccontando che ha fatto il pendolare a Milano per tanti anni...

«Sì, lavoravo alla società telefonica Siemens, poi Italtel, dove prestai servizio per trent’anni. Per via del lavoro la mia vita prese una piega inaspettata: infatti, in fabbrica scoprii il sindacato. E proprio da alcuni colleghi mi fu chiesto un coinvolgimento maggiore nell’azione sindacale. Ma c’era un problema: se avevo davanti tre persone mi bloccavo. La nostra era un’azienda grandissima, le assemblee partecipate: la timidezza era un limite».

E come la sconfisse?

«Il mio sindacato mi mandò a Bologna, a frequentare una scuola, con uno specifico corso in oratoria. Alla prova finale gli esaminatori mi chiesero di esporre un argomento a piacere. Proposi una riflessione sull’Iliade, in quanto innamorato della letteratura classica. Accadde il miracolo: presi a parlare, e non la smisi più. Ciò cambiò la mia vita».

Fu un impegno così radicale il suo?

«Sentivo l’importanza di rappresentare i lavoratori. Avevo due avversari: a sinistra il Partito comunista, e a destra gli imprenditori, quelli non buoni. Nella mia fabbrica si sviluppò un nucleo fondamentale delle Brigate Rosse, che faceva riferimento a Mario Moretti, uno dei capi, che proprio lì lavorava. Fu un periodo difficile. Nel recarmi in azienda, dovevo cambiare itinerario, perché temevo che mi si potesse tendere un agguato: noi sindacalisti eravamo considerati nemici; ed io, che prendevo i consensi anche da chi aveva la tessera del Partito comunista, risultavo oltremodo inviso ai brigatisti».

Ma lei politicamente è stato mai schierato?

«Sono sempre stato di idee socialiste. Stimavo Craxi, malgrado i suoi errori. Ho avuto il privilegio di una corrispondenza con Salvador Allende. Avevo conosciuto un impiegato del Consolato del Cile a Milano. Fu lui a fargli pervenire una mia lettera di apprezzamento. Da lì nacque questo dialogo, che mi ha molto inorgoglito».

Qual è stata la cosa che l’ha più appassionata nella vita?

«Oltre all’attività sindacale? Credo la cultura. Conosco a memoria la Divina Commedia. Dante è un contemporaneo, non è mai vecchio: insegna sempre qualcosa. Le svelo un segreto: al mattino vado a comperare il pane, 150 metri da casa, e per misurare la mia efficienza devo recitare un canto della Divina Commedia, se salto una parola, allora, capisco che non sarà una buona giornata! Per questa mia passione ebbi anche un’inaspettata soddisfazione».

Di che tipo?

«Quando lavoravo a Milano, frequentavo un locale di cabaret, il Derby, ne avrà sentito senz’altro parlare, no? Era gestito dagli zii di Diego Abatantuono. Lì si sono esibiti artisti famosi. C’era anche un palco laterale dove chiunque poteva recitare. Alcuni amici mi spinsero a declamare la Divina Commedia. Provai. Dopo le prime strofe mi accorsi che in platea non si sentiva volare una mosca. Ebbi una valanga di applausi. Mi scritturarono. Recitai molte volte la Divina Commedia, e guadagnavo anche bene».

Che bilancio fa del Novecento?

«È stato un secolo altalenante. Fino al 1946 gli italiani avevano un tipo di vita al di sotto della media; poi vi fu una generazione politica che diede conforto e si visse nel benessere. Quindi cominciò la regressione: la crisi nasce da lontano. Sa cosa diceva Craxi? Chi fa politica solo promettendo, finisce per deludere il popolo italiano. Mi sembra che questa massima oggi calzi a pennello per chi guida l’Italia».

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