La biografia del primario del pronto soccorso di Lodi in un libro

Un libro che ha iniziato a scrivere per paura di doversi ancora un giorno dimenticare di quello che gli era successo. Quando ha capito che questo non sarebbe potuto accadere ha continuato però a scrivere per testimoniare a tutto il mondo che la disabilità è spesso solo un’etichetta che ci viene appiccicata addosso.

Pierdante Piccioni, nonostante la lesione cerebrale attestata da una Tac, ha dimostrato all’Inail e all’amministrazione dell’ospedale di Lodi nel quale lavorava come primario del Pronto soccorso, che stava bene e poteva tornare a fare il medico. Ha gettato dalla finestra i documenti per la pensione di invalidità e oggi stringe la mano a giornalisti di quotidiani e televisioni in camice bianco da primario. In mano ha il romanzo della sua biografia edita da Mondadori e stesa insieme a Pierangelo Sapegno “Meno dodici. Perdere la memoria e riconquistarla: la mia lotta per ricostruire gli anni e la vita che ho dimenticato”.

Di 12 anni, infatti, è il vuoto di memoria che lo ha colpito in seguito all’incidente in auto del 2013, lungo la tangenziale di Pavia. Quando si è risvegliato dal coma, poche ore dopo, era convinto di essere nel 2001. Si ricordava di aver accompagnato i suoi due bambini alle elementari e di essersi recato nell’ospedale di Crema nel quale lavorava. In realtà, i suoi figli erano ormai due giovani universitari, Piccioni era diventato primario del Pronto soccorso di Lodi, era entrato a far parte di importanti gruppi di lavoro regionali, sua mamma era morta e sua moglie si era ammalata. Poi gli smartphone, Internet e Facebook. erano entrati nella quotidianità e Piccioni non ne sapeva nulla. Ci sono voluti due lunghi anni per rendersi conto che gli altri intorno a lui non mentivano, anni di fatica e conflitti famigliari. «Dopo la mia ripresa - racconta il medico dal suo nuovo studio del pronto soccorso di Codogno - mi recavo tutti i giorni davanti alla scuola elementare, sperando sempre che i miei figli entrassero o uscissero da lì. Non riuscivo ad accettare che fossero i due che si erano presentati in ospedale dopo l’incidente, alti e con la barba. Rivolevo i miei bimbi piccoli ai quali cantare la ninna nanna, non due universitari con cui discutere e scontrarmi. Ho dovuto uccidere metaforicamente i miei figli Filippo e Tommaso per poter continuare a vivere nell’illusione che fossero ancora piccoli. E se poi non mi sono arreso all’etichetta di disabilità che mi avevano appiccicato addosso, è stato soprattutto per loro. Avevo voglia di tornare a farmi stimare dai miei ragazzi. Volevo che non mi guardassero più pensando “poverino”, ma che si meravigliassero di me: Ah però che papà. Ecco, “Meno dodici”, per me, è soprattutto un romanzo sull’amore paterno». Ma anche un «manuale di sopravvivenza. Nel volume - spiega - racconto come ho trasformato la rabbia in passione e la disabilità in opportunità. Ne è uscito un bel messaggio di speranza. Mi dicevano: “Ma perché ti danni tanto l’anima? Prendi l’invalidità e te ne stai tranquillo a casa. Perché vuoi tornare in ospedale con questa sanità che poi va a rotoli? Io invece ci credevo. Fare il medico è stata la mia passione da sempre e mi sono battuto fino a che sono tornato. Per la burocrazia era più semplice lasciarmi lì». Piccioni ha recuperato con uno studio forsennato tutti i 12 anni di evoluzione sanitaria che aveva dimenticato e i medici del lavoro hanno detto che sì, Piccioni era quello di prima. Poteva tornare in corsia. La lesione cerebrale? Solo una lastra. «Il mio tweet preferito, oggi che so che cos’e un tweet - ammette Piccioni è questo: “#iononsonoilmioreferto”. Se all’inizio cercavo disperatamente di ricordarmi quello che era successo dal 2001 al 2013, ora non mi interessa più. Ho sempre la speranza di poter un giorno tornare a ricordare, ma non spreco più i miei neuroni per farlo. Impiego le mie energie per il futuro e i miei pazienti. Adesso che ho visto il mondo dal punto di vista del malato, il mio modo di lavorare è cambiato. Ho una marcia in più».

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