Istantanee per salvare

la memoria

Conosci Silvano Bescapè e pensi a Elzéard Bouffier, protagonista del racconto L’uomo che piantava gli alberi dello scrittore francese Jean Giono. Bouffier era un pastore che trascorreva le giornate a porre a dimora semi di querce e faggi. Un lavoro silenzioso e sconosciuto che ridiede vita a a una valle desertica e riarsa. Bescapè, arcinoto fotografo lodigiano, in alcuni locali del municipio di Cavenago ha fatto mettere radici alla propria raccolta di centinaia di migliaia di fotografie, cartoline illustrate, macchine fotografiche, cineproiettori e, in generale, di ricordi che raccontano la storia del territorio. Scattare, stampare e rendere visibile una, dieci, mille foto è come piantare alberi immaginari per lasciare una testimonianza a qualcuno che camminerà su queste terra quando noi non ci saremo più. Lo dice lui stesso. «Qui salviamo la nostra storia» è la prima frase che pronuncia durante l’intervista. In quel “nostra” c’è anche e soprattutto la sua. È nato Livraga, papà Enrico era cantoniere, la madre Maddalena casalinga. Ha fatto il barista a Milano e il tornitore ma, soprattutto, ha cominciato da giovane a consumarsi le scarpe sui marciapiedi come fotografo del «Corriere Lombardo» dopo l’incontro fortuito (tramite un amico che gli trasmise la passione) per l’arte della fotografia. Siamo nel 1960: Bescapè torna a Livraga e apre il negozio Foto Olimpia (era l’anno delle Olimpiadi di Roma) poi nel 1967 ne apre un altro a Castiglione. Nel 1968 si sposa con Mariuccia Miragoli che lo aiuterà a gestire il laboratorio di Livraga. Nel 1973 lascia il negozio di Castiglione e si sposta a Lodi in corso Roma. Anticipa i tempi. È il primo a proporre il servizio di sviluppo e stampa in sessanta minuti, è il primo a dotarsi di macchinari avanzati per l’epoca e a comprendere l’importanza degli archivi fotografici: il suo, quelli dei colleghi professionisti e quelli dei semplici appassionati. Quando chiude qualche negozio in città o nel circondario, lui si presenta e acquista in blocco “il magazzino”: istantanee, negativi, attrezzature, perfino i mobili da studio. Dal negozio Foto Celso rileva un archivio di 650mila immagini che vanno dal 1964 al 1992. Dallo studio di Nino Tronchini circa 12mila immagini da pellicola 135millimetri per il periodo 1935-1943. Da Foto Naborri di San Colombano settecento immagini oltre a lastre, materiale pubblicitario e una sala di posa dei primi del Novecento, oggi esposta, con tanto di fondale neoclassico. Da Foto Peveri, anch’egli banino, ecco 1.500 immagini, positivi o negativi, più attrezzature varie. In molti casi recupera il materiale pagandolo (spesso a peso d’oro, ma questo non vuole che la moglie lo sappia), in altri casi ricevendolo in dono da parenti e nipoti del proprietario. Poi ci sono i mercatini da bazzicare e la voce che si sparge. Fanno migliaia e migliaia di foto che si assommano anno dopo anno. Queste sono le cifre. Poi ci sono le storie. Perché ogni fotografia è uno sguardo su un mondo, su una vita o su un personaggio interessante, che si tratti di un volto noto o di uno sconosciuto. Così ecco un’insolita Ada Negri sorridente, ben diversa dall’iconografia che la vuole accigliata e concentrata, e nella sala di fianco un’immagine che racchiude un’esistenza come il diploma (con annessa medaglietta) conferito dal Lanificio di Lodi a Caterina Belloni, nata il 14 ottobre 1878 a San Fereolo, Lodi. Il primo dicembre 1887, quando è ancora bambina, comincia a lavorare al Lanificio. Ci trascorrerà 60 anni, andando in pensione il 29 giugno 1948 portando con sé diploma, medaglietta e una foto con le ormai ex colleghe. Poi ci sono i volti in bianco e nero degli alpini, i mutilati della Seconda guerra mondiale, le allieve del “I primo corso magistrale 1880” di Lodi, le “maestranze specializzate capi mungitura” di Lodi e Codogno esaltate dalla retorica fascista. Accanto ai volti, la storia del territorio: l’ingrandimento della prima fotografia conosciuta del ponte urbano, scattata nel 1863, con l’impalcatura di quello di legno ancora esistente; i proiettori cinematografici per pellicole in 35 millimetri delle sale parrocchiali di Miradolo, Cavenago e Castiglione; l’immagine dell’incidente ferroviario «miracoloso» («Non ci furono feriti» spiega Bescapè) avvenuto alle 7.40 del 5 gennaio 1909 alla stazione di Lodi. Tutto questo è nato dalla caparbia passione di un uomo. Il modo migliore per ringraziare Bescapè? Visitate il museo. Pare niente invece è tantissimo.

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