In tre locali resiste la storia di Cècu

È stato per Lodi quello che Pulcinella è stato per Napoli e Arlecchino per la Bergamasca: un sornione grillo parlante, una maschera tragicomica, una voce arguta che ricordava ai lodigiani dell’età d’oro, del benessere e dei fasti della finanza locale che appena una generazione prima i loro genitori giravano con le pezze al pantalone. Antonio Cècu Ferrari ha rappresentato per anni lo spirito del Lodigiano ma il territorio sembra essersi dimenticato di lui. A vegliare sul museo da lui creato a Montanaso è rimasto, isolato ma tenace come il tenente Drogo del Deserto dei Tartari, solo Marino Cavalloni, suo amico, scenografo e presidente della compagnia “I Soliti”, per anni spalla di Cècu. Ora quella compagnia non c’è più. Si è sciolta, non ha retto alla morte di Cècu, anima e fondatore, il 25 gennaio 2012 a 74 anni. Restano i ricordi dei suoi amici e compagni di palcoscenico come Cavalloni, che per lui ha creato fondali, camini finti e opuscoli, e restano i 700 e passa oggetti di questa raccolta stipata all’inverosimile in tre locali e un portico del “Palasson”, l’edificio più antico di Montanaso che, per un certo periodo, ospitò anche gli sfollati della guerra e gli uffici dell’Agip. «Nel 2002 il Comune lo acquistò e ci diede uno spazio, poi ampliato - racconta Cavalloni -. Portammo qui gli oggetti che Cècu raccoglieva da una vita». Non solo donazioni («Quando qualcuno smontava un’officina o un laboratorio artigianale lo chiamava, si sapeva in giro della sua passione») ma gli stessi oggetti di famiglia costituiscono una mostra nella mostra: la macchina da scrivere con cui creava poesie e testi teatrali («Ma fu anche organizzatore di concorsi e premi dialettali» sottolinea giustamente Cavalloni); gli accendini di suo padre Andrea prigioniero in Africa durante la seconda guerra mondiale; il camioncino in legno che il papà, operaio in una segheria, gli costruì per donarglielo a Santa Lucia nel 1947 quando aveva 10 anni. Poi gli oggetti che raccontano mestieri e vita quotidiana tra cui alcune rarità come la culla di Eugenio Castellotti donata dai parenti del pilota della Ferrari alla famiglia Fiocchi di Montanaso e da questi a Cècu oppure le lastre su vetro (per visore stereoscopico a colonna, ricostruito da Cavalloni spulciando su Internet) delle foto che tale Luigi Mazzocchi, ufficiale fotografo del Comando supremo italiano, scattò sui fronti di guerra. Tutto interessante, ma quello che è il vero tesoro, qui, è la storia di Cècu e della sua compagnia: ci sono fondali double face disegnati da Cavalloni («Su un lato una cascina, sull’altro la piazza di Lodi, lo giravamo nell’intervallo tra i due tempi»), le scenografie, gli oggetti (veri) che Cècu maneggiava in scena. Sta tutto lì, in attesa di essere valorizzato. A Napoli si dimenticherebbero di Pulcinella?

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