Il professore con il “vizio” dell’archeologia

È una mattinata densa di luci, a Retegno, libera ed indipendente frazione di Fombio. E quando il professor Giampiero Zanotti mi accoglie nella sua dimora-rifugio, dietro i convenevoli consueti di benvenuto, attivo l’archivio della memoria, cercando di focalizzare ogni particolare del giardino e della casa. In un angolo della sala, vi è un pianoforte e sul ripiano è aperto uno spartito che sembra antichissimo.

Non conoscevo il professor Zanotti, ma riesco a farmene immediatamente un’idea, perché è diretto, esuberante, accattivante affabulatore, ma autentico. Credo sia un idealista, un liberale, un intellettuale che si rifugia nei tanti ricordi di famiglia, ma ugualmente possiede il senso della lungimiranza. Un uomo che privilegia, dentro principi morali assolutamente rigorosi, l’effervescenza delle contraddizioni: «Quando ero studente delle medie ho avuto un validissimo docente: il professore Mario Zambarbieri; spronava noi alunni ad uscire fuori dalle abituali pozzanghere, intendendo per tali le banali comodità o i posti sicuri in cui vivevamo. Sono stato fedele alla sua lezione: sono uscito fuori dalla mia pozzanghera, e sono anche rientrato».

Interessante questa metafora...

«Zambarbieri era un genio! Figlio di un ciabattino, non aveva alcun obbligo di affermazione sociale o culturale: ma divenne maestro, e poi professore, prime alle medie e quindi al liceo “Carducci” di Milano. Anche quando si ritirò in pensione, continuava a preparare gli studenti più qualificati per gli esami di latino».

Alle soglie dei 77 anni, trova che vi siano più agi o più malinconie dentro una pozzanghera?

«L’età non volge solo a cose negative. Io sto dalla parte di Cicerone: la vecchiaia è possibile viverla con serenità. E riguardo alla pozzanghera, Retegno lo è ancora, semmai ancora più ristretta rispetto al passato, ma io ne difendo le radici; è una pozza che, dopo tutto, ho sempre amato».

Eppure sin da bambino lei se ne allontana: aveva la scuola nell’attigua Fombio, ed invece svolge le elementari a Codogno...

«Allora, Fombio e Retegno, sembravano distantissime, soprattutto per ragioni politiche. Comunque fu una scelta dei miei genitori, che avevano una mentalità molto religiosa, inquadrata; la nostra era una famiglia medio borghese in un ambiente rosso, dal sasso facile».

In che senso?

«Retegno agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso era un ambiente difficile, anche a livello scolastico: le maestre non ci volevano venire e quando obbligate non vedevano l’ora di scapparne a gambe levate. Volavano pure i calamai in classe. Poi ci fu lo strascico della guerra, in un clima avvelenato: nella vita si va per gradi, non per salti. Era difficile mettersi il passato alle spalle».

Ci fu un pacificatore?

«Sì, fu don Mario Tavazzi, un grande, ingiustamente chiacchierato da certe dicerie popolari. Era stato cappellano militare ed alla fine rientrò nell’Esercito. Fu lui a mettere all’angolo i comunisti ed a svelenire il clima. Lo ammiravo molto, anche se dovetti svincolarmi da lui per non finire in Seminario!».

Mi racconti...

«Facevo il chierichetto, e don Mario aveva pensato che avessi la vocazione. Mi propose di andare in Seminario. Ma io non mi sarei mai ritrovato in un sistema di gerarchie ecclesiastiche. Non volevo offenderlo. E passai un’estate tremenda in attesa di dargli la risposta. Alla fine, gli dissi che non desideravo abbandonare la mia famiglia e gli agi che ne derivavano».

I Zanotti erano stimati industriali....

«Ci fu un periodo che la mia famiglia ebbe qualche fortuna. Il mio bisnonno faceva il pescatore, qui a Retegno, ma aveva avuto l’intuizione di fondare una falegnameria con annessa ciminiera; penso che l’idea gliel’avesse data la moglie, una genovese, abituata al senso dei sacrifici ed agli investimenti».

In una minuscola frazione della Bassa una fabbrica di rilievo...

«L’unica a quel tempo nel paese. Non c’era famiglia del luogo che non avesse da noi almeno un lavorante. Ma la fortuna, malgrado l’impegno proseguito dal nonno, durò poco. La fabbrica fu coinvolta nella crisi economica del ‘29 e andò tutto a ramengo. Anche mio padre dovette ripartire da zero».

Che tipo era suo padre? Come si chiamava?

«Umberto, un idealista che non rinnegò mai la sua fede fascista. Non ebbe problemi perché, dai suoi operai in primis, gli si riconosceva un’evidente onestà. Mi aveva abituato al senso della misura: quando mi diplomai, ebbi da lui in regalo la sua moto usata. Aveva una grande passione per la musica, conosceva tutte le opere liriche, che cantava, pur essendo stonato. Frequentava il Teatro Sociale di Codogno, realtà all’avanguardia a quel tempo per gli spettacoli; mio nonno, da buon falegname, aveva allestito spesso le scenografie di quegli ambienti».

Come reagì suo padre al fallimento?

«Si diede al commercio. Faceva le stime sui valori e sulle rese dei boschi. Quando papà si sposò, il signor Ballotta di Piacenza gli diede a credito la camera da letto. Penso che non fu facile per lui trovarsi in quelle condizioni, ma le affrontò».

Professore, è vero che lei voleva fare il pianista?

«È stata una mia grande passione. Penso l’avessi ereditata da uno zio paterno: Giulio Zanotti, che coltivava l’amore per l’arte e per il bello; era sempre in fuga a Milano, dove andava alla Pinacoteca di Brera: osservando aveva imparato a dipingere; anche lui era un amante della musica: aveva conosciuto personalmente Puccini! Lo zio era stato maestro elementare e successivamente segretario comunale».

Chi le aveva insegnato a suonare?

«Una religiosa cabriniana, nel collegio di Codogno; si chiamava madre Carmela, ed era di origine americana: severissima, ma brava. In realtà, finita la terza elementare, i maschietti non potevano più proseguire il rapporto con la scuola ed il convento: ma mia madre disse alle suore che se non mi avessero fatto proseguire le lezioni di pianoforte, avrebbe ritirato dalla struttura anche le mie due sorelle. E le religiose capitolarono».

Come mai non ha frequentato il Conservatorio?

«L’idea mi era venuta, ma mio padre mi disse che solo con la musica era difficile vivere, e invece di andare al Conservatorio, scelsi la Facoltà di Lettere antiche, iscrivendomi all’Università, e poi insegnando».

Lei è stato per molti anni, in qualità di docente, un protagonista delle scuole lodigiane...

«La scuola per me è stata come una famiglia, forse perché non mi sono mai sposato. L’idea del matrimonio, infatti, mi ha sempre atterrito».

Non ha mai amato una donna tanto da perdere la testa?

«Forse più di una volta. Ma l’idea dell’indissolubilità, di un legame per la vita, mi paralizzava. Sapevo che avrei finito per rendere infelice una donna».

Alla scuola invece ha dedicato tutto se stesso?

«Quello scolastico era un ambiente che sentivo mio. Ricordo la permanenza all’Itis di Casalpusterlengo, negli anni Settanta, allorchè le contestazioni studentesche ebbero un apice molto violento».

Quando si è giovani è normale contestare...

«Si trattava di qualcosa di diverso: c’era un nucleo di studenti con aderenze fra le Brigate Rosse; se un alunno non desiderava a scioperare, veniva obbligato. La tensione era palpabile. Successivamente andai all’Istituto Tosi, a Codogno: fu come scoprire un oasi di pace».

Cosa in particolare le piaceva della scuola?

«Il rapporto con gli alunni, con i giovani, che mi ha sempre arricchito: c’è da imparare dai ragazzi, perché hanno una carica vitale immensa, e sanno trasmetterla, se ascoltati. La scuola mi ha fatto sempre sentire vivo, insieme all’altra grande passione della mia vita, scoperta tardivamente, ma che mi ha dato tante emozioni: l’archeologia».

Perché ne è stato così rapito?

«Mi piace perché è una scienza che abbina il momento operativo a quello speculativo, pensiero ed azione. Io credo che ogni atto sia creativo e nell’archeologia questo è ancora più vero. E poi mi ha consentito di uscire dalla pozzanghera, mi ha sprovincializzato: sono stato in Polonia, a Malta, e sempre ho portato a casa un bagaglio carico di emozioni».

C’è qualche errore che si rimprovera?

«Chi non ne ha? Ho avuto, ad esempio, il torto di fare politica. Un’esperienza tragica. La partitocrazia affossava qualunque iniziativa. Subivo gli ordini di scuderia. Mi divertivo a fare il franco tiratore, assecondando così la mia natura di ribelle».

Professore Zanotti, qual è stato il maggiore valore del Novecento?

«L’idea liberale, tradita, mai del tutto realizzata, e la cui mancata attuazione spianò la strada a Mussolini. Eppure avevamo un grande maestro come Croce! Tutto credo sia ancora da realizzare. Io sono un assiduo ascoltatore di Radio Radicale: l’Italia ha la necessità di superare l’egemonia dei partiti».

Il suo sogno di oggi?

«Continuare nelle mie, pur sporadiche, spedizioni in Sardegna. Per scavare. Scoprii l’isola come commissario d’esami per la Maturità. In Sardegna c’è il cuore di tutto. Amo quei luoghi. Come si ama l’infinito».

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