
Il tenore Giuseppe Pollini ha donato una Radiomarelli modello 118 dei primi anni Cinquanta con giradischi (e decine di vinili), il tutto dentro una massiccia (26 chili) console in legno. Un ingegnere di Lodi ha regalato una radio da campo del 1943 della Wehrmacht, le forze armate tedesche, a tre valvole e onde corte. Poi ci sono i modelli (meno seri) come la “radio - fungo” che la Grappa Piave distribuiva come gadget ai baristi (la forma ricalcava quella della bottiglia), la serie della Cynar, quella della Coca Cola, quella a forma di barattolo di Nutella poi automobili, pupazzi, bottiglie... «I bambini impazziscono di curiosità quando le vedono» spiega Nicholas Viola, che nel gruppo dei quattro titolari del Museo della radio di Montanaso si è specializzato nella categoria “forme strane” . Nicholas, suo padre Maurizio, Giovanni (ma per tutti è Franco, il tecnico del gruppo) Madonini e Marino Donadelli sono quattro appassionati di radio che hanno messo insieme le proprie collezioni e hanno chiesto e ottenuto dal Comune di Montanaso (anche se il museo meriterebbe locali più grandi e accessibili anche ai disabili) uno spazio nel “Palasson” per la loro creatura, nata da una passione diventata realtà. Si entra nel cortile del “Palasson”, si imbocca una porta sulla sinistra, si sale un’insolita scala elicoidale e si è arrivati. Le radio sono sistemate su scaffali di legno in un locale. Non tutte: il luogo è angusto e molte sono chiuse sotto chiave nello sgabuzzino o negli armadi (in parte anche in un laboratorio a Lodi). In caso di visite si tirano fuori e si posizionano su grossi tavoli in un locale più grande che è però utilizzato anche per prove teatrali. Gli spazi stretti non spaventano tuttavia i quattro che, al contrario, approfittano della presenza del cronista per lanciare un appello: «Se avete vecchie radio che non vi interessano più (possibilmente non in condizioni disastrate, ndr) non buttatele. Donatecele e noi le rimetteremo a posto e le esporremo nel nostro museo indicando su un’etichetta nome e cognome del donatore». Una delle ultime donazioni in ordine di tempo è quella di Federico Valdameri, un ingegnere elettronico di Offanengo, provincia di Cremona, recentemente deceduto. Valdameri, ex tecnico nella centrale Enel di Tavazzano, aveva visitato la mostra di radio in occasione di qualche fiera, i quattro non ricordano quale. Appassionato anch’egli, ha scritto alcune disposizioni nel testamento per lasciare decine di radio della sua collezione al museo. Andranno ad aggiungersi ai pezzi pregiati in esposizione come la Philips 834A, la “radio prosciutto” per via della forma panciuta (una cinque valvole dei primi anni Trenta) o la Atwater Kent 20C, la veterana del gruppo, annata 1925. Il tutto raccolto in poco più di due anni, considerato che il museo ha aperto nel 2013 e ha poco dopo ottenuto l’inserimento nel Sistema museale lodigiano, una promozione sul campo per l’impegno messo dai quattro curatori. Resta un cruccio (oltre a quello dell’esigenza di spazi maggiori) ed è quello di mettere le mani sulle mitiche Radio Balilla e Radio Rurale. La prima era un modello autarchico introdotto nel periodo fascista: poco più di un semplice ricevitore con circuito Reflex a tre valvole, sufficiente ad ascoltare le sole emittenti locali (quelle estere, non serve ricordarlo, non erano benvolute all’epoca). La seconda era anch’essa un ricevitore, a prezzo imposto, con caratteristiche standardizzate promosso ai tempi del fascismo dall’Ente Radio Rurale, destinato a parrocchie di campagna, cattedre ambulanti di agricoltura e scuole. Pezzi rari, ultime testimonianze di un’epoca in cui, forse più di altre, la radio fu capace di fermare un Paese intero attorno a sé. Storia che è bello osservare. D’altronde la radio non si sente solo con l’udito. Lo scrisse anche il grande Freddy Mercury in quell’inno che è “Radio Ga Ga”: «Seduto da solo guardavo la tua luce, la mia unica amica nelle notti dell’adolescenza, e tutto ciò dovevo sapere, l’ho ascoltato alla mia radio».
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