«Il mondo vive nel nodo del mistero»

Ne sto ammirando gli occhi: azzurri, limpidi, vivaci. Dopo tutto, gli occhi non hanno le rughe, ma rivelano ugualmente lo scorrere del tempo: si velano, si opacizzano; non quelli, però, di don Giuseppe Cremascoli (per tutta l’intervista ho continuato a domandarmi se l’avessi dovuto chiamare monsignore, ma alla fine sentivo di dirgli solo: Giuseppe): lui ha questi occhi chiari, quasi trasparenti.Mi affascinano; così come il suo parlare: forbito, pacato, con concetti elevati ma in grado, in un sol guizzo, di rifugiarsi dentro il dialetto lodigiano ed un proverbio: «Sui miei occhi - sorride don Cremascoli - mi trova impreparato! Per la genetica, saranno certo frutto di un’eredità; ma non di mio padre, nè di madre. Avevo uno zio materno, morto di tifo quando era diacono in seminario; in una sua breve nota biografica, si fa proprio riferimento ai suoi occhi azzurri: si chiamava don Giuseppe Lacchini».

Da padre e madre, invece, cosa ha preso?«Da mio padre Carlo il carattere, dalla mamma Maria un certo senso di imperatività. Lei era una vera donna del popolo, nel senso che spiccava per senso concreto, anche quando cedeva ad una rassegnazione inevitabile ma consapevole: non aveva fatto gli studi, ma aveva un linguaggio scintillante, dantesco, pur volto al dialetto. Manifestava sentenziosità, concludendo i suoi ragionamenti in infiniti proverbi».

Che mestiere faceva papà?«Insieme a due fratelli aveva una bottega, dove si svolgevano alternativamente due attività: quella del sarto e quella del barbiere. I miei erano originari di Borghetto Lodigiano, e la nonna aveva mandato mio padre per otto anni in pensione, a Lodi, affinchè imparasse i mestieri e li trasmettesse ai suoi due fratelli minori».

Ma lui cosa faceva: il sarto o il barbiere?«Ambedue le cose, così come i fratelli. Papà aveva la mistica del lavoro: ad esempio, consegnare all’ora giusta l’abito al cliente. Ricordo che un giorno, durante il pranzo di Natale, lasciò la tavola per andare a servire qualcuno. Noi protestammo, ma papà ci riprese: qualunque lavoro vi troverete a svolgere nella vita, sappiate che il cliente ha sempre ragione, ci ammonì».

Quindi lei ha vissuto la sua infanzia a Borghetto Lodigiano?«Sì, ma quel paese esiste soltanto nella mia mente: quando vado a cena da mia sorella Rosetta fatico a riconoscere i luoghi di un tempo. Non ricordo neppure quando facessi i compiti: se mi ripenso bambino, mi rivedo solo in oratorio».

C’è qualcuno che le è rimasto nel cuore, di quell’epoca?«Un anziano, uomo illetterato, canzonato amabilmente dai paesani per via dei suoi famigliari, che lo facevano disperare. Stava sempre zitto, ma un giorno, serissimo, replicò: Che volete, è la mia croce, e devo portarla addosso. Fu il primo esempio di imitazione di Cristo che colsi nella vita».

Don Cremascoli, ma l’idea della croce, non è troppo triste? Pensare ad un Gesù allegro, spensierato, è sacrilego?«Anzi! Nei testi della prima letteratura cristiana è documentato un Gesù molto sensibile all’amicizia e che gradiva la compagnia. Una figura carismatica che comunicava con i vincoli del cuore».

Lei da bambino entrò in Seminario. Non erano metodi precipitosi, con i quali poi si sarebbero dovuti fare i conti?«Le dico come l’ho vissuta io: mi sembrava di passare da un oratorio piccolo ad uno più grande. Però riconosco che è difficile oggi immaginare e ricostruire quel mondo. Ma avevamo la certezza, e quindi la serenità, che alcuni sarebbero rimasti ed altri no: le decisioni sarebbero giunte dopo».

E nell’oratorio più grande, inizialmente, quali sensazioni provò?«Di sgomento. Avevo 11 anni: il palazzo del Seminario mi sembrava grandissimo. Quella dimensione mi atterriva».

Come vissero i suoi genitori questa nuova condizione?«La mamma ne era felice: viveva nel ricordo del fratello diacono prematuramente scomparso. Papà delegava tutto alla moglie, certe volte anche i sentimenti, nel rispetto del detto lombardo: Nella cà di un galantom, chi comanda è la donna, non l’òm!».

Ebbe mai l’impressione che vi stessero rubando l’infanzia?«Eravamo un’ottantina di ragazzini, impegnati negli studi, ma anche nello sport: avevamo la palestra, la squadra di calcio, quelle di pallavolo e di pallacanestro. Però la sua domanda ha un fondamento: il bambino sentiva di entrare in un mondo, e di continuare ad essere parte del mondo, ma che non si trattava del mondo uguale a quello degli altri».

Una sensazione strana...«Questo è rimasto fondamentalmente, ancora oggi, il problema della condizione ecclesiastica».

Colgo nelle sue parole un sentimento che non riesco ad interpretare...«Mi rammarica che i preti siano visti esclusivamente nella loro condizione sacerdotale. Possono essere docenti di importanti atenei, grandi matematici o filosofi, avere ruoli di rilievo nella società, ma per la gente resti quello: un prete. Nella mia carriera universitaria, ho colto tante sorprese quando svelavo la mia condizione non solo di docente, ma anche di sacerdote».

Prima dei voti ha avuto mai una crisi?«Sì. Mi capitò di leggere alcune pagine di Albert Schweitzer: pastore protestante, musicista, medico, filantropo, filosofo, biblista. Ed io mi trovai a meditare sul fatto che se avessi scelto la vocazione avrei dovuto rinunciare a fare tante altre cose, ad essere solo prete e non anche altro. Ne ebbi paura».

E come risolse il dilemma?«I superiori mi assicurarono che, visti i miei interessi, mi avrebbero indirizzato agli studi. Nel 1956 fui ordinato».

Poco dopo la chiesa lodigiana ebbe un periodo di ebollizione...«Vi fu una crisi, una frattura tra un ristretto numero di intellettuali e un’altra parte più tradizionalista che considerava i primi dei perdigiorno. Invece, quel piccolo gruppo era emblema di un travaglio della Chiesa e della cultura occidentale: agiva proponendo interrogativi che suscitavano inquietudine».

La frattura fu dolorosa...«Penso che quel gruppo avesse qualche ragione, ma un intellettuale non deve mai dimenticare di analizzare la realtà, sottolineandone le ingiustizie, senza mai perdere cognizione che quella è la situazione in quel dato momento storico».

Lei dove si collocava nella polemica?«Vicino agli intellettuali, ma con un vincolo preciso: volevo rimanere dentro l’Istituzione. Dicevo sempre: voglio morire cattolico, apostolico e... lodigiano! A volte ci si scontrava su sfumature: loro insistevano sulla necessità di democratizzazione della Chiesa, mentre io proponevo il valore della Sapienza collegiale».

Distingui curiali...«Guardi, una volta ebbi a dire che con il Sessantotto avevo avuto un “casto amplesso”. Non ha idea delle noie che ebbi».

Fra gli intellettuali mantenne rapporti solidissimi, anche dopo la loro fuoriuscita...«Con Barbaglio avevo consuetudini di profonda frequentazione. Volevo molto bene anche a Commissari, uomo poetico, di raffinati sentimenti, dal sogno a noi comune della “renovatio mundi”. Intenso anche se frammentario il dialogo con Barbaini, che pagò fisicamente uno scotto altissimo alle sue ansie. E Annibale Zambarbieri, che ha avuto un percorso di docenza di tutto rispetto, lo frequento tutt’oggi».

Fra gli intellettuali c’era anche don Leandro Rossi...«Un generoso, che univa la praticità all’utopia. Era un uomo composito, di poca pazienza. Un irruento che seppe rimanere dentro la Chiesa. Ha scritto pagine intense».

C’è un lodigiano, fra i laici, che ha ammirato?«Il professore Rezzonico; dotato di una lucidità matematica incommensurabile, e con un caratteraccio terribile: eppure riuscivo ad andare d’accordo con lui».

Lei ha insegnato tanto e svolto l’attività pastorale...«Tenevo ad avere questa perfetta “doppia vita”. Desideravo che il prete si affrancasse dalle necessità economiche, vivendo gratuitamente il ministero. Ho insegnato latino e greco in Seminario, svolgendo il ruolo di prete prima a Postino di Dovera e poi all’Ausiliatrice di Lodi. Quindi feci il professore all’Itis e successivamente fui assistente universitario, preparandomi nel frattempo al concorso per la libera docenza come titolare di cattedra. Ho insegnato nelle Università di Perugia, Lecce e Bologna. Nel frattempo divenni rettore dell’Incoronata: un incarico che mi ha molto gratificato».

Lei ha studiato tanto: ha raggiunto verità indiscutibili attraverso i libri?«Si afferrano solo minimi frammenti della Verità, magari dopo essersi arrovellati per anni sui testi. Certe volte mi sembra di essere uno scettico che ha la fede. Mi trovo immerso in cose paradossali e contrastanti».

Il Cristianesimo è in crisi?«C’è un grande problema in Occidente, e credo anche in Oriente: la fatica di passare dal terrestre al Trascendente. Un vuoto devastante. Le tragedie greche erano dense di riferimenti alla divinità: l’oltre non era oggetto di silenzio. Oggi questo aspetto è rimosso: è scattato qualcosa di cosmico, che blocca verso il divino».

È una paralisi definitiva?«Io non sarei riuscito a divenire ateo, neppure volendolo. Il mondo è entrato nel nodo del mistero: non c’è più anelito verso il divino».

Don Cremascoli, la condizione ecclesiastica del futuro, avrà nuove prospettive?«È importante che le abbia. C’è questo contrasto tra la figura idealizzata del prete dell’immaginetta oleografica e il crollo delle vocazioni, come prima vi era stato quello degli esodi dalla Chiesa».

Come risolverlo?«Credo che sia fondamentale cambiare il sistema di reclutamento del clero: non si può prendere un ragazzino ed attorcigliarlo in modo che gli venga la faccia da prete! Sarebbe assurdo! Occorre invece guardare alle comunità segnate dalla fede e dall’onestà per trovare figure di diaconi da valorizzare. Va costruito un nuovo ceto ecclesiastico».

Com’è stato il Novecento?«Se lo guardiamo sotto alla lente della Storia, con due guerre, e con i lager ed i gulag: che giudizio possiamo darne, allora?».

È contento della sua vita?«Faccio mia una frase scritta sul Diario di un curato di campagna: tutto è Grazia. Mi ci immedesimo, anche laddove ho sofferto od ho sbagliato».

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