Il “coltellaio” che divenne baritono

Il friulano Claudio Del Tin - da oltre due decenni residente a Merlino, precisamente dal 1992 - non ha ancora l’età del patriarca, nè tantomeno le sembianze di anziano; ma ha tanto da insegnare e un’esperienza di vita estremamente singolare vissuta nel secolo Novecento.

Per questo, gli ho chiesto di essere testimone del secolo appena trascorso: per spiegare, soprattutto ai più giovani, che ai propri sogni, quando belli e onesti e sinceri, non si deve mai rinunciare.

Claudio Del Tin è un baritono di professione; ha cantato in ogni dove nel mondo, ma ha cominciato umilmente dalle sagre di paese del suo Friuli. Prima che ci conoscessimo, lo immaginavo, in ossequio alle sue origini e a dispetto dell’essere un uomo di spettacolo, come aspro: se non tagliente, sicuramente chiuso.

Ho trovato invece un interlocutore socievole, traboccante di aneddoti: «Su noi friulani - mi racconta, la bella voce suggestiva e densa d’echi - la gente ha un’idea preconcetta: io sono di Maniago, provincia di Pordenone, e dalle mie parti siamo così: contenti, pronti ad aiutare il prossimo. A me capita di tornare a casa una volta all’anno: e con gli amici ed i parenti facciamo feste interminabili».

Cosa ricorda delle sue radici?

«La povertà. Il Novecento, almeno sino alla metà degli anni Cinquanta, vedeva un’Italia nella miseria. Almeno, in Friuli era così. Soldi in tasca non ce n’erano per nessuno. Il massimo del divertimento era fare girare un cerchio, spingendolo col bastone senza farlo cadere...»

È stato povero?

«Personalmente no. I miei nonni erano contadini, quelli dell’agricoltura di un tempo, con la stalla ed una dozzina di mucche. Però ricordo che il nostro mangiare seguiva il corso delle stagioni: periodi a mangiare granturco, altri a nutrirsi di patate, e solo quello, senza mai variare. Bastava per campare dignitosamente. Però attorno a noi c’era davvero poco, e molte erano le famiglie che vivevano in condizioni di grande disagio».

Come le si aiutava?

«Con la solidarietà, quella vera, fatta di gesti semplici e concreti. Ricordo dei grandi falò sull’aia della corte dei miei nonni e tante persone radunate a mangiare. Si uccideva il maiale, e si pranzava insieme. C’era un raccolto importante, e si faceva festa tutti quanti. Questa era una costante: poco per tutti, ma il cibo non doveva mancare, chi ne aveva di più, sapeva dare, senza tanti fronzoli. Nessuno ne era escluso».

Un atteggiamento sviluppatosi come?

«Grazie al senso dei rapporti. Tra noi friulani ci sono stati sempre legami forti. Il dialetto stesso ci univa: una parola in idioma, spiegava più di frasi lunghe e di circostanza».

Suo padre proseguì l’impegno agricolo?

«No, scelse di andare a lavorare in una fabbrica di coltelli. E, poco dopo, insieme ad un parente, si mise in proprio. Costruivano coltelli di buona fattura, pugnali a scatto, con il fodero; e li vendevano in America, Olanda, Germania. Finita la prima classe di avviamento commerciale, papà mi chiese di aiutarlo nella propria fabbrichetta, ed io lasciai così gli studi».

Ci rimase male?

«Abbastanza, ma non è che avessi molte possibilità di ribellarmi. Poiché però mi piaceva la musica, papà quasi per compensare la mia delusione mi regalò una fisarmonica a piano. Cominciai così nel tempo libero a studiare musica e a cantare. I miei maestri restavano tutti colpiti dalla mia voce. Ricordo un’insegnante, Lia Fabrizi, che mi portò ad una scuola di canto di Udine: viaggiavamo in Lambretta, lei davanti, ed io dietro».

E papà che ne diceva del suo talento?

«Non ci credeva. Per lui era una perdita di tempo. E poi non voleva spendere soldi in lezioni. Allora organizzai un complessino: con gli amici si andava a suonare e a cantare nelle sagre di paese. Ma, dentro di me, sentivo che non dovevo rinunciare al mio sogno».

Come lo coltivò?

«Continuando a cantare, nel mio piccolo. Nel 1966 andai ad una manifestazione canora a Savignano sul Rubicone; presentava il grande Corrado; interpretai Se non avessi te di Gianni Morandi, ed arrivai sesto; l’anno successivo, al concorso di Castrocaro, arrivai in finale. Piccole soddisfazioni»

Non tali da imprimere una svolta alla sua vita?

«Avevo già 26 anni, mi ero sposato: razionalmente il mio percorso era quello del coltellinaio».

Allora cosa accadde?

«Una volta mi esibii nella provincia di Treviso: cantai «Un amore così grande» di Mario Del Monaco. Si avvicinò una signora, complimentandosi: mi disse che dovevo assolutamente studiare lirica, che ero ancora in tempo, e che lei stessa mi avrebbe fatto contattare dal maestro Del Monaco, del quale era amica. Pensavo scherzasse, due giorni dopo, con mio grandissimo stupore, fui invece contattato. Andai a Conegliano Veneto per un’audizione».

Con quale risultato?

«Feci due prove, perché ad una il maestro Del Monaco era assente per indisposizione. Quando mi ascoltò, mi disse soltanto: “Hai in gola una miniera d’oro”. Fui preso nella sua scuola. Direttamente al terzo anno. Io volevo fare il tenore, ma lui m’indirizzò a perfezionarmi come baritono».

Cosa provò in quel periodo?

«Un misto tra soddisfazione e rabbia per non averci creduto prima. Studiai tanto. Dopo tre mesi partecipai ad un concorso internazionale a Novara: lo vinsi. Poi mi aggiudicai un ruolo come artista del Coro dell’Arena di Verona. Fu solo in quel momento - era il 1986 - che mi licenziai dalla fabbrichetta di papà».

E lui come reagì?

«Ne fu sorpreso. Molto sorpreso. Ma non si godette il mio successo, perché morì prima».

Cosa fece all’Arena di Verona?

«Cantai durante quattro stagioni estive. Feci il solista nell’opera La fanciulla del West di Puccini, interpretando il ruolo di cantastorie. Successivamente mi spostai al Teatro Comunale di Treviso».

Aveva smesso di studiare?

«Niente affatto. Però era morto Del Monaco ed io ero andato a Mantova alla scuola del maestro Ettore Campogalliani. Era un cambio radicale di abitudini. Dovevo sobbarcarmi 280 km ad andare ed altrettanti a tornare. Per fortuna mia moglie Renata faceva l’infermiera e chiese il trasferimento: Mantova divenne la nostra nuova città e segnò l’altra svolta fondamentale della mia vita».

Quale?

«In quel periodo vi fu un bando alla Scala di Milano per l’assunzione di alcuni musicisti, tra cui un baritono. Avevo più di una riserva nel parteciparvi. Ma spinto da mia moglie andai alla prova. In sala eravamo 47 concorrenti; pensavo che fossero lì per tutte le posizioni; invece no, eravamo esclusivamente baritoni. Ascoltai i primi sei e pensai di darmela a gambe: avevano tutti voci straordinariamente interessanti».

Cosa la fece rimanere?

«Telefonai a mia moglie e le dissi che volevo tornare a casa. Fu proprio Renata a darmi serenità. E andai a cantare innanzi agli esaminatori».

Cosa intonò?

«Dal Ballo in maschera di Verdi, interpretai Eri tu che macchiavi quell’anima. Tutti annuivano. C’era un ispettore che mi disse: vedrai che sarai tu a vincere. Tornai a Mantova e dopo tre giorni mi telefonò un amico: “Claudio, hai vinto il concorso”».

Il coronamento di un sogno, dopo una lunga rincorsa...

«Vissi un periodo straordinario. Ho cantato nel coro ed anche come solista. Mi sono esibito, fra gli altri posti, a Barcellona, a New York, a Mosca, a Vienna, a Seul ed in Giappone. Sono stato diretto da Riccardo Muti e da Giuseppe Sinopoli. Ho lavorato con José Carreras, con Plácido Domingo, con l’indimenticato Luciano Pavarotti. Esperienze bellissime».

Che sensazioni provava nel trovarsi innanzi a questi mostri sacri?

«Sapevo d’avere davanti personaggi straordinari: Pavarotti era, sinceramente, speciale. Ma non avevo alcuna soggezione. Con Carreras eravamo diventati anche amici»:

C’è un’opera che ha sentito maggiormente propria?

«Direi Rigoletto, che ha pagine musicali stupende: è come un abito su misura, il baritono è quasi sempre in scena».

Com’è il mondo dello spettacolo vissuto da dentro?

«Un luogo affascinante, che seduce. Serve avere testa sulle spalle e piedi ben piantati a terra. Ho colto anche profondi rapporti d’amore tra colleghi».

Lei è riuscito a mantenersi se stesso?

«Le dico questo particolare: ad ogni mio ritorno in Friuli, prendevo la fisarmonica e suonavo per gli amici».

Le è mai capitato di steccare?

«Per forza, chi ne sfugge? Ma si reagisce, anche se poi dentro al camerino ci si tormenta».

Adesso ha definitivamente smesso di cantare?

«Sì. Nel 2010 ho rischiato l’infarto: giusto come prima cosa pensare alla salute. Ho qualche allievo a lezione, e mi piacerebbe realizzare qui a Merlino una scuola per aspiranti cantanti lirici. Amo questo paese che mi ha accolto: i miei figli sono cresciuti qui; quando vi arrivai c’era tanta nebbia ed il fascino dell’Adda. Il paese è splendidamente cresciuto negli anni».

Del Tin, lei ha frequentato personaggi straordinari. Ma chi ha maggiormente contato nella sua vita?

«Mia moglie ha sacrificato - e non è un modo di dire - davvero tutto per me. Senza di lei, non ce l’avrei fatta. E poi un mio padrino, Renzo Spadon: dopo che avevo lasciato la fabbrichetta di papà, lui mi assunse nella sua azienda affinchè percepissi una paga con la quale mantenermi agli studi di canto. Erano più i permessi che gli chiedevo, che non le ore lavorate».

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