È un fotografo prestato alla pittura, con i suoi “click” ha fermato il tempo

A Lodi Vecchio il signor Dante Vacchini, classe 1930, è una celebrità. Ha fotografato migliaia di compaesani, e dopo l’arte degli scatti, ha scoperto quella della pittura, ed io credo di apprezzarlo perché ha avuto, sicuramente, un pregio: ha saputo fermare il tempo prima che ogni cosa scivolasse via come la sabbia, allorchè sfugge dal pugno di una mano ed illude di andare in una direzione ed invece il vento la sospinge ovunque, granelli imprendibili e sfuggenti. Non le immagini di Vacchini, non le sue opere. Neppure i ricordi, nitidi a dispetto di un’epoca lontana. Depositario delle reminiscenze, anche quelle più piccole. Come un destino, già portato nel nome, di suo così impegnativo: Dante. «Fui chiamato così - mi spiega - non in onore del poeta, ma di uno zio materno, morto giovane, probabilmente di tifo. Un modo dei miei parenti per farne memoria».

I suoi avi erano di Lodi Vecchio?

«Il mio nonno paterno, che si chiamava Carlo Vacchini, era di Borgo San Giovanni. Mio padre Guglielmo era nato lì nel 1896. Precisamente erano della frazione Cà dell’Acqua, agricoltori alla cascina Bosco. Mia mamma, Ines Chirichetti, era invece di Tavazzano, anche i suoi erano di ceppo agricolo, conducevano la cascina Cà de Zecchi».

Che ricordi ha dei suoi genitori?

«Mamma Ines era una santa donna: mio padre la portò in casa, dove oltre al suocero, rimasto vedovo, dovette badare ai sette figli maschi di quest’ultimo. Papà era un uomo serio, che aveva saputo reagire ai rovesci del destino».

In che senso?

«I Vacchini coltivavano zucche, di quelle speciali, enormi, a forma di pera. Erano adatte per farne mostarda. Venivano sbucciate e poste in salamoia, sotto pesi molto forti per schiacciarle. La mia famiglia riforniva le aziende del Nord Italia. Ma la guerra cambiò il corso degli eventi e gli affari presero una pessima piega».

Cosa accadde in particolare?

«Intanto, ci morì un cavallo, a cui si era infilzato un chiodo nella zampa senza che nessuno se ne accorgesse. Poi il sale non arrivò più dal Sud e si fu costretti a cessare la coltivazione delle zucche».

Mi diceva che papà seppe reagire...

«Papà aveva fatto la Prima guerra mondiale. Era stato segretario dell’Unione Combattenti. Un uomo abituato a lottare. Continuò a coltivare la terra, presa in affitto a prezzo irrisorio dal signor Severino Scorletti, quello delle Gualdane, che era un vero signore. Papà aveva una carrozza e all’occorrenza si faceva prestare un cavallo: così accompagnava gli sposi in chiesa oppure effettuava un altro inusuale trasporto».

Quale?

«La conduzione degli arrestati dalla stazione dei carabinieri di Lodi Vecchio al Tribunale di Lodi. Successivamente acquistò una motocicletta e fece il portavalori per una banca. Ma il brutto, negativo scossone sull’attività agricola ebbe conseguenze importanti anche per me».

Cosa accadde?

«A 15 anni fui costretto a lasciare gli studi. Era così forte il desiderio di erudizione, che m’iscrissi ad un corso per corrispondenza, indirizzo tecnico, mi giungevano le riviste dalla Svizzera. Ma non durò tanto. Mi rimase però la passione per la meccanica: alla cascina San Marco c’era un agricoltore che si chiamava Dedè, ogni tanto andava all’officina di un certo Croce e gli proponeva la realizzazione di macchinari agricoli all’avanguardia. Ebbe il torto di non brevettarli mai: era a suo modo un inventore e magari avrebbe potuto fare fortuna».

Lasciati gli studi cosa fece?

«Un mio cugino mi procurò un posto in una ditta di Milano, dove si fabbricavano manometri di precisione, gli orologi che misurano la pressione delle macchine. Vi rimasi per sette anni. Giusto in quel periodo giunse a Lodi Vecchio una persona che tanto incise nella mia vita».

Chi?

«Don Mario Griffini. Si trattava di un uomo speciale. Credo che sia stata la persona che più ha contato per me, anche se importante è stata pure la positiva influenza di don Michele Bassanetti».

Perché don Griffini contò così tanto?

«Mi instradò verso quella che divenne la mia professione: l’arte della fotografia. Lui stesso amava fotografare: per lo più paesaggi, e mi spiegava le tecniche per valorizzare luci ed atmosfere. Cominciai a frequentare, durante il lavoro, un corso serale di fotografia a Milano. La mia vita divenne frenetica: mi dividevo tra il lavoro in azienda ed i servizi fotografici. A volte capitava che si celebrassero due matrimoni contemporaneamente: allora mi aiutava mia sorella Teresa».

Fotografa anche lei?

«Se la cavava egregiamente, anche dal punto di vista tecnico. Ma sopratutto era una ragazza bellissima, di un fascino impareggiabile. Era una donna molto corteggiata, e quando decise di sposarsi smise di fotografare, così io persi un valido aiuto».

La fotografia le fece lasciare la ditta di manometri?

«Sì. Un giorno il padrone comunicò che le commesse avevano subito una riduzione ed occorreva effettuare almeno un licenziamento: mi offrii volontario, poiché avevo questa alternativa della fotografia, mentre per gli altri colleghi le conseguenze sarebbero state negative».

Non ebbe paura di fare il passo più lungo della gamba?

«No. Poi mio fratello Sante aveva frequentato un corso come ottico, e quindi aprimmo uno studio di Foto-ottica. Fu una svolta importante».

Fotografare i matrimoni avrà senz’altro costituito uno spaccato di vita sociale significativo...

«Il Novecento l’ho vissuto attraverso il mio obiettivo, cogliendo la felicità degli altri nel giorno delle loro nozze. In quegli anni si era tutti più poveri: si raggiungeva la chiesa a piedi, dall’abitazione della sposa. Quelli ricchi si permettevano il landò, ma erano eccezioni. Spesso i ricevimenti si tenevano in casa. Anche la festa matrimoniale di mio fratello si svolse fra le mura domestiche: venne a cucinare un mio cugino di Lodi, che faceva il cuoco».

C’era povertà, ma uno spirito positivo...

«Prevaleva su tutto il desiderio di costruirsi un futuro. La gente attraverso il piccolo risparmio aveva l’ambizione di possedere una propria casetta. A quel tempo le occasioni di lavoro non mancavano»

Un secolo positivo, dunque?

«Speciale, davvero. Poi c’era un aspetto: Lodi Vecchio, in quel tempo, è stata terra di vocazioni religiose, in particolare di missionari: don Mario Acquistapace, salesiano, che operò in Cina; don Luigi Bignamini, missionario in Birmania; nella sua missione andò una zia paterna, suor Giuseppina; un’altra zia, suor Serena, sorella della prima, fece la missionaria a Bolzano, in una clinica privata. Vanno, infine ricordati due preti contemporanei: don Giuseppe Salvadè, oggi in Svizzera, e don Mario Ferrari, che ha operato in Belgio».

Figure importanti...

«È vero. A me piace ricordare anche un altro prete: si chiamava don Mario Bergomi, ed era un autentico personaggio; un prevosto buono come il pane, che raccontava a suo modo le vicende di san Bassiano, inventandosele di sana pianta per i turisti che giungevano da Milano: dopo la visita chiedeva le offerte, ma se uno era di Lodi Vecchio gl’intimava di non dare soldi».

La Basilica è spesso raffigurata nei suoi quadri...

«È stata sempre un vanto per questo paese, grazie al cuore ed alla passione di don Antonio Spini. Credo che lui, con grande dedizione, abbia restituito un’importante dignità alla Basilica. Sembra un tipo mite, ma è un maresciallo di ferro, uno che non si arrende davanti alle difficoltà».

Mi tolga una curiosità: è vero che lei come fotografo è noto anche in Svezia?

«Lo sono stato. Accadde che un’azienda svedese mi fece pervenire dei campioni di loro prodotti con la proposta di fotografarli: le immagini venivano riprodotte in quadratini minuscoli come francobolli e poi inserite in depliant pubblicitari. Per quell’azienda, credo di averne fotografate milioni, di immagini...».

Si sarà sentito realizzato...

«Maggiori soddisfazioni mi ha dato la pittura, la mia seconda passione, giunta forse tardivamente. Anche in questo caso ho avuto chi mi instradò: mio cognato Piero Foroni, che faceva il carrozziere a Milano, e nel tempo libero dipingeva. Era bravissimo. Lui stava a Lodi Vecchio alla località Cà de Racchi. Fu il mio maestro».

Come ha cominciato?

«Casualmente, quasi per rilassarmi. Studiavo le prospettive, che mi affascinavano. Nelle mie opere ho privilegiato la natura, i lavori in cascina, gli ambienti rurali. Ho realizzato oltre duemila quadri, vendendo tanto, e con il ricavato ho potuto mantenere gli studi dei miei figli, avuti con la mia sposa Carmela Foroni: Guglielmo, che svolge l’attività di ottico; Anna, laureata in lettere, che insegna alle scuole medie di San Martino in Strada; e Luisa, ragioniera, che lavora in banca».

Eugenio Lombardo

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