Dai bus di famiglia a San Siro e ritorno: il calcio antico dell’inossidabile “Paiòn”

C’è stato un momento, a metà degli anni Quaranta del secolo scorso, in cui il santangiolino Felice Cerri aveva tutto ciò che poteva desiderare dalla vita: gioventù, fama, successo, soldi, prestigio. Era un calciatore di Serie A, indossava la maglia del Milan. Persino la gente dello spettacolo accorreva per farsi fotografare con lui: Walter Chiari, ad esempio, era un habitué del suo tavolo, a Milano, nel ristorante in cui era solito mangiare.

Nella propria abitazione, il signor Cerri ha tanti cimeli e moltissime fotografie: capitava che i calciatori si scambiassero vicendevolmente immagini con dediche affettuose, sincere, a comprova di sodalizi non solo sportivi, ma soprattutto umani. Eppure di quella meravigliosa epopea - oggi, all’età di 95 anni - Felice Cerri, casacca numero 3 da difensore, ne parla quasi con distacco, esaltando invece i ricordi relativi alle proprie origini: «Io sono stato il primo di sedici figli battezzati. Purtroppo alcuni morirono ancora in fasce, rimanemmo in nove. La nostra era una famiglia molto unita, caratterizzata da profondi sentimenti cristiani, come ci aveva insegnato nostro padre Giovanni».

Che lavoro faceva papà?

«Con i suoi fratelli, aveva 12 pullman. Con queste corriere coprivamo, da Sant’Angelo Lodigiano, le tratta per Lodi e per Milano, più alcune zone interne del territorio. Una tradizione di famiglia, visto che anche nostro nonno Carlo si occupava di trasporti: la sua, però, era ancora l’epoca delle diligenze con i cavalli».

Quella della dinastia dei Cerri era conosciuta con la “scumagna” dei “Paiòn”: mi sa spiegare il perché?

«Sinceramente no, non ho mai conosciuto il vero motivo. Probabilmente è legato al fatto che i nonni, a Sant’Angelo, abitavano nella zona denominata “La massaia”, una porzione di territorio agricolo, sovrabbondante di paglia: da qui credo quel soprannome. E forse, nel passato, qualche antenato della paglia avrà fatto commercio.... Davvero, non saprei».

Mi diceva che la vostra formazione cristiana fu dovuta alla forte fede del papà...

«Sì. Ci raccontava che, talmente era devoto, che desiderava farsi frate. Ma un giorno mentre si trovava in Veneto, durante la Prima guerra mondiale, mentre era alla guida di un camion casualmente s’imbattè in una donna e si trovò così a fare i conti con la sua effettiva vocazione».

Vinse l’amore?

«Infatti. Teresa, originaria di Schio, divenne sua moglie. Pur avendo rinunciato ai voti, papà mantenne inalterato il suo spirito religioso. Preghiera e lavoro erano i suoi precetti».

Valori che trasmise a voi figli...

«Nella nostra famiglia abbiamo avuto un fratello prete, don Carlo, e due sorelle suore dell’Istituto delle Paoline. Noi frequentavamo assiduamente l’oratorio: dicevano che noi Cerri avessimo voci molto belle, così i miei fratelli e le mie sorelle partecipavano ai cori della messa. Ma anche riguardo al lavoro fummo precoci: pensi che io a dieci anni, finite le elementari, lavoravo alla Star, per imparare il mestiere, sempre nel settore dei trasporti».

Ma questo non possiamo dirlo: si trattava di sfruttamento minorile....

«Erano altri tempi. E poi facevo il garzone, portavo utensili da una parte all’altra dell’officina, nulla di impegnativo».

Poi arrivò il pallone...

«Ai miei tempi si passava tutti attraverso la squadra dell’oratorio, la Junior, fondata nel 1925. Mi videro giocare quelli del Sant’Angelo e così andai a giocare con la squadra più importante della mia città. Era l’anno 1936, ma esordii solo nella stagione successiva».

Poi cosa accadde?

«Successivamente cominciò la guerra. Io facevo da autista al mio capitano, andavamo sempre al confine. Era uno scambio continuo di mezzi, occorreva sostituire quelli vecchi con quelli più efficienti. Una volta feci tappa a Lodi e mi fermò Egidio Zoncada, il presidente del Fanfulla. Mi chiese se avessi avuto piacere di giocare per la squadra di Lodi»

E lei cosa rispose?

«Che ne sarei stato sinceramente contento, ma c’era la guerra, ed io ero un soldato. Non so come, ma lui riuscì a farmi avere il trasferimento. Feci così il militare a Lodi, e nel frattempo giocavo a pallone».

Com’era quel Fanfulla?

«Vi approdai nel 1940 ed era una squadra fortissima, che disputava il campionato di Serie B. Dalla nostra avevamo il carattere: non ci arrendevamo mai. Io giocavo da terzino, e se c’era da picchiare duro, non mi tiravo indietro. Ma sono sempre stato leale».

Chi era il giocatore più forte di quella squadra?

«Credo che un qualcosa in più avessero Crola e soprattutto Lovagnini, del quale ero buon amico».

Ricorda qualche allenatore di quegli anni?

«Ho avuto il privilegio di avere come tecnico Federico Munerati, che era stato da calciatore un bomber della Juventus: un allenatore molto preparato, un signore del calcio».

Dopo quelle stagioni in bianconero, passò al Como, giusto?

«Sì, nel 1944. Si era alla fine della guerra, e si giocava il Torneo Benefico Lombardo, con una dozzina di squadre partecipanti. Vincemmo quel torneo, con comprensibile soddisfazione. In quella squadra oltre a me, c’erano pure altre lodigiani, come Sichel e Lovagnini».

Quindi l’approdo al Milan...

«Dovevo andare al Bologna in realtà...».

Davvero?

«Fui molto tentennante, sino all’ultimo. L’offerta del Bologna era rilevante perché mi proponevano anche un posto di lavoro. Ma andando a giocare al Milan, avevo la possibilità di continuare a vivere a Sant’Angelo e così, quantomeno nel tempo libero, di potere dare una mano ai miei parenti nella guida dei pullman».

Al Milan rimase tre stagioni, dal 1945 al 1948...

«Un bel periodo. Mi volevano bene tutti. Quando andai via il presedente Umberto Trabattoni pianse a dirotto».

Addirittura?

«Guardi, lui era un grandissimo appassionato del gioco delle carte, e poiché anche io me la cavavo, durante i ritiri pre partita, voleva sempre fare coppia con me. Lui ed io insieme eravamo imbattibili».

La squadra giocava a San Siro?

«Sì, poi si fecero lavori di ristrutturazione e disputammo molte gare all’Arena».

Che Milan fu il suo?

«Mancò l’emozione dello scudetto, ma nella mia ultima stagione arrivammo secondi, dietro il grande Torino. Nelle precedenti stagioni, un terzo ed un quarto posto. Eravamo una buona squadra con un fuoriclasse assoluto: Puricelli, noto come “testina d’oro”. Con affetto ricordo anche Gimona ed il capitano Giuseppe Antonini, persona straordinaria».

Qual è stato il giocatore più difficile da marcare?

«Meazza. Ricordo un derby: credo fosse la sua ultima stagione da calciatore, eppure rimaneva imprendibile, non si capiva mai come avrebbe gestito il pallone».

Quindi il passaggio in Serie B all’Alessandria...

«Andai lì per un campionato. La sistemazione mi andava bene perché, ancora una volta, mi trovavo vicino casa. Durante la bella stagione facevo il pendolare con la moto, mentre d’inverno stavo in albergo».

Nel 1949/1950 tornò al Fanfulla, ancora in B...

«Ci salvammo. Una squadra di amici: Castellazzi, Goldaniga, Servidati, i fratelli Gino e Mario Sichel tanto per citarne alcuni...».

Concluse la sua carriera a Pavia...

«Vi rimasi quattro stagioni. Dopo due terzi posti in Serie C, arrivammo primi, ottenendo la promozione in B, e l’anno dopo conquistammo una tranquilla salvezza. Mi era stato chiesto di portare esperienza e credo che riuscii ad assolvere il mio compito».

Mi tolga una curiosità: una volta i terzini si attaccavano agli attaccanti avversari come francobolli alla busta e non oltrepassavano mai la propria metà campo. Le è mai capitato di segnare?

«Ho giocato 330 partire da professionista, ed ho fatto due goal. Uno con la maglia del Sant’Angelo ed un altro con quella del Pavia».

Si è ritirato a 34 anni...

«Ho giocato finchè sapevo di reggere il confronto. Ho fatto anche l’allenatore del Sant’Angelo, dalla stagione 1954/55 a quella del 1958/59, arrivando a giocare ancora, nel doppio ruolo tecnico/giocatore, qualche spezzone di partita. Ma facevo fatica a conciliare l’impegno sportivo con quello lavorativo, poiché ero rientrato a tempo pieno nell’azienda di famiglia, all’epoca guidata dai miei fratelli Domenico, Eugenio e Tarcisio. Lasciai quindi del tutto il mondo del calcio».

Signor Cerri, qual è il ricordo più bello del suo Novecento, quantomeno quello sportivo?

«Una volta andai in visita dal Papa, non ricordo con quale squadra. E il pontefice (era Pio XII, ndr) quando seppe che tra i calciatori vi era uno di Sant’Angelo Lodigiano, chiese di conoscermi, e si complimentò con me perché provenivo dal luogo in cui era nata Madre Cabrini. Provai un sentimento ineguagliabile di profondissima fierezza».

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