Anche nel Lodigiano sono gli artigiani a pagare per la crisi

Capello lungo e completo d’ordinanza, Danilo Coppola alla metà degli anni Duemila è riuscito a diventare uno dei più importanti immobiliaristi della capitale sfruttando il “boom del mattone”, contatti ad alto livello nell’economia e nella politica e rapporti privilegiati con le banche, tra le altre con la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani. A Lodi l’imprenditore capitolino era molto conosciuto, tanto che l’istituto di credito fondato nel 1864 da Tiziano Zalli gli aveva concesso con grande generosità finanziamenti per acquistare o costruire palazzi a Roma e Milano o per fare qualche buon affare con le dismissioni del patrimonio pubblico, come con la ex sede dell’Enel di Roma, oggi quartier generale dell’Autorità della concorrenza. In quegli anni i soldi uscivano da Lodi anche per altri motivi, come ha dimostrato la magistratura, e cioè per acquistare pacchetti di azioni Antonveneta, tra il 2004 e il 2005 “preda” della Popolare di Fiorani. Proprio a metà del 2005, però, la bufera giudiziaria che ha stoppato l’operazione ha trascinato nella polvere anche il rampante Coppola e con lui tutti i prestiti concessi fino ad allora dalla Bpl, nel frattempo diventata Banca Popolare Italiana.

Cosa fare con centinaia di milioni di euro prestati e che difficilmente sarebbero rientrati? Se lo deve essere chiesto fin dall’inizio Pierfrancesco Saviotti, chiamato alla fine di un burrascoso 2009 a guidare il Banco Popolare, nato nel 2007 dalla fusione tra i veronesi del Banco Popolare di Verona e Novara e la lodigiana Banca Popolare Italiana del post Fiorani. Il gruppo Coppola, al pari di molti altri famosi clienti delle popolari degli anni duemila, era “to big to fail”, un modo di dire americano che sta a significare che era troppo grande per poterlo lasciare fallire. Chi avrebbe ripagato tutti i debiti? E così nel 2010 il Banco Popolare lavorò con altri istituti a un maxi prestito da 180 milioni di euro con il quale foraggiare l’imprenditore romano per la costruzione del comparto immobiliare di Porta Vittoria a Milano. Permettergli di finire il cantiere e ripagare così i debiti con le banche, questo l’intendimento con il quale era stato aiutato Coppola. L’operazione aveva suscitato polemiche e malumori, anche nel corso dell’assemblea dei soci del Banco andata in scena nella primavera del 2011, perché da un lato si chiedevano sacrifici ai soci per portare la banca fuori dalle secche e dall’altro si aiutava nuovamente uno dei “furbetti del quartierino”. Il finale è presto scritto, il gruppo Coppola non si è risollevato e le banche sono rimaste con il cerino in mano, cioè con immobili a garanzia e finanziamenti non rimborsati.

Il caso di Coppola è solo uno dei tanti che nella seconda metà degli anni Duemila, a partire dalla grande crisi importata dagli Stati Uniti (nel 2007 fallisce Lehman Brothers), hanno gonfiato di sofferenze le banche italiane, grandi e piccole. Miliardi e miliardi di crediti inesigibili, che hanno avuto un doppio effetto: mettere in difficoltà il sistema e ridurre fortemente la capacità degli istituti di credito di erogare nuovi prestiti. A farne le spese tuttavia non sono stati i grandi gruppi, cioè quelli che hanno contribuito a creare il problema, ma principalmente i piccoli imprenditori, gli artigiani, stretti tra la morsa di dimensioni talvolta poco bancabili e decisioni calate dall’alto, cioè dai direttori di filiale e dai capi area, che chiedevano il rientro degli affidamenti e la redistribuzione del rischio.

Non è un caso che nella città che è stata così generosa con i vari Coppola, Ricucci e Statuto, i prestiti bancari alle imprese locali artigiane nel 2015 hanno fatto registrare un crollo verticale, -9 per cento rispetto all’anno precedente, che pure era stato difficile (fonte “Lo stato del credito alle Pmi nel territorio lodigiano”, Ufficio studi Confartigianato Lombardia). E anche il Rapporto 2017 “Artigianato e piccole imprese”, redatto sempre dall’Ufficio studi Confartigianato Lombardia e presentato a Lodi prima dell’estate, evidenzia che nel 2016 nella nostra provincia i prestiti alle imprese artigiane sono diminuiti del 5,2 per cento rispetto al 2015. Va meglio per le grandi imprese, che nel 2016 hanno visto aumentare i finanziamenti.

I dati di Confartigianato inducono a pensare che nel nostro territorio la crisi delle banche, causata anche dall’ingente mole di sofferenze, sia stata pagata dai piccoli imprenditori e non dai colossi - spesso con sede fuori provincia - che hanno contribuito a determinare il “buco”. Solo per fare un altro esempio, si può guardare al gruppo Sorgenia della famiglia De Benedetti, che ha costruito le centrali, tra le quali quella di Turano Bertonico, con i soldi delle banche (e tra le altre con i soldi del Banco Popolare) salvo poi non ripagare i debiti: e così gli istituti di credito, che per loro natura dovrebbero raccogliere e prestare denaro, si sono trovati a dover gestire centrali elettriche, in attesa di un piano che permetta loro di uscire dall’investimento.

Che la crisi sia stata pagata soprattutto dai piccoli è opinione diffusa anche nel mondo sindacale. Più volte negli ultimi anni il segretario della Federazione Autonoma Bancari di Lodi (Fabi), il principale sindacato dei “colletti bianchi”, ha individuato nei consigli di amministrazione importanti responsabilità. E non solo nei cda delle grandi banche, ma anche in quelli dei piccoli istituti, tra le quali le banche di credito cooperativo. La tesi di Ettore Necchi, in estrema sintesi, è la seguente: “I consigli di amministrazione delle banche hanno deliberato importanti finanziamenti ai grandi gruppi, parte di questi non sono rientrati causando grossi problemi alle banche stesse, che hanno scaricato la patata bollente sui lavoratori con piani di riduzione del personale e sui piccoli imprenditori con la riduzione degli affidamenti”. Un “credit crunch” in piena regola insomma, si direbbe utilizzando un altro termine anglosassone, che ha indubbiamente colpito in maniera pesante anche il Lodigiano. Sebbene i direttori generali siano concordi nel definire il primo scorcio del 2017 positivo in termini di aumento degli impieghi e di ripresa della domanda, gli ultimi dati disponibili sul 2016 sono ancora pesanti. Il Banco Popolare ha chiuso l’esercizio 2016 con una perdita netta di 1 miliardo 600 milioni di euro, provocata da una robusta pulizia di bilancio imposta dalla Banca centrale europea per autorizzare la fusione con la Banca Popolare di Milano. Pulizia effettuata proprio per la grande mole di sofferenze (al 30 giugno 2017 il neonato gruppo Banco Bpm ha esposizioni nette deteriorate per 14,2 miliardi di euro, 2,9 miliardi in meno rispetto al 30 giugno 2016). Al 31 dicembre 2016 lo stock degli impieghi netti del solo Banco Popolare ammontava a 75,8 miliardi di euro, in calo del 3,3 per cento rispetto a inizio anno. Una flessione, segnalavano però da Verona, “ascrivibile in parte alle operazioni di cessione di crediti deteriorati e alla progressiva riduzione degli impieghi della Divisione Leasing oltre che alle rettifiche di valore legate al rafforzamento delle coperture dei crediti deteriorati”. Il bilancio 2015 riportava uno stock di impieghi pari a 85,3 miliardi di euro, in calo del 2,7 per cento rispetto al 2014.

Il gruppo Banco Bpm è il principale operatore bancario del territorio e comunque la si pensi è evidente che la vecchia Popolare ha contribuito al suo sviluppo, non fosse altro che per la creazione di posti di lavoro e per aver regalato alla città l’invidiabile complesso di Renzo Piano. Ancora oggi il legame tra questa banca e il territorio è strettissimo e numerosi enti pubblici e partecipate si reggono proprio grazie a questo istituto, basti pensare al Comune di Lodi e alla sua municipalizzata Astem, alla nuova piscina coperta di Lodi, alla Fiera, al Parco Tecnologico Padano e l’elenco potrebbe proseguire a lungo.

Non va meglio per la Banca di Credito Cooperativo Centropadana, oggi con sede a Lodi, una tra le più grandi banche di credito cooperativo della Lombardia e d’Italia, protagonista di una impetuosa crescita nelle dimensioni, nel numero di filiali e nei volumi. Dopo anni d’oro l’istituto di credito ha chiuso l’esercizio 2016 con una perdita pesante, 13,3 milioni di euro, causata prevalentemente dalla pulizia del bilancio, ben 33 milioni di euro di rettifiche su credito deteriorato (le esposizioni creditizie deteriorate nell’ultimo bilancio sono stimate in un valore complessivo di 216 milioni di euro). Solo un anno prima, nel 2015, Centropadana aveva licenziato un bilancio con un utile netto di 7 milioni 477 mila euro (in calo però del 25 per cento rispetto all’utile netto del 2014). A diminuire è anche lo stock degli impieghi: 1 miliardo 403 milioni nel 2015 (-6,7 per cento sul 2014), 1 miliardo 291 milioni nel 2016. Cresce invece - e questo è un dato positivo - la copertura delle sofferenze, che si assesta al 64 per cento. L’avvocato Serafino Bassanetti, presidente di Centropadana, ha sempre parlato di una banca di territorio, che vive con le aziende della porta accanto e che ne condivide ogni giorno le difficoltà: tradotto, se l’economia locale soffre e le aziende vanno in crisi, anche la banca avrà delle ripercussioni, come dimostrano i 33 milioni di rettifiche nel solo 2016.

La riduzione degli impieghi non è prerogativa solo delle banche più grandi che operano nel Lodigiano. Anche la Bcc di Borghetto Lodigiano, ad esempio, che si inserisce tra le piccole casse rurali, ha fatto registrare una flessione. A fine 2016 lo stock di impieghi si è attestato a 195 milioni di euro, in flessione dello 0,94 per cento sul 2015 (un calo decisamente contenuto). Il bilancio 2015 presentava invece uno stock di impieghi in contrazione del 2,5 per cento sul 2014. In questo caso, è bene dirlo, la Bcc Borghetto non ha le dimensioni per operare con i grandi gruppi e il suo “core business” sono le famiglie e le piccole imprese. La crisi degli ultimi anni ha inciso però anche su queste realtà: dal bilancio 2016 si evince che la Borghetto ha crediti deteriorati per 12,7 milioni di euro (in calo del 12 per cento rispetto al 2015); i crediti deteriorati netti rappresentavano nel 2016 il 6,95 per cento del totale degli impieghi, cifra che si attestava al 7,72 per cento nel 2015 e al 5,7 per cento nel 2014.

Il bilancio 2016 della Bcc Laudense di Lodi, infine, indica che le sofferenze nette (e dunque la parte più ammalorata dei crediti deteriorati, la punta dell’iceberg) rappresentano il 3,98 per cento del totale degli impieghi e dice anche che il livello di copertura delle sofferenze nette è pari al 56,49 per cento. Dunque anche in casa Laudense si guarda con attenzione ai prestiti che non rientrano. La lettura nuda e cruda dei bilanci indica però anche che nel 2016 la piccola Bcc lodigiana ha visto crescere gli impieghi (+ 5,67 per cento, stock di 228 milioni di euro) e così è avvenuto anche nel 2015 (+ 8,35 per cento, stock di 216 milioni). Per la Laudense vale tuttavia lo stesso discorso della Bcc Borghetto: sono istituti piccoli e dunque il loro peso sulla massa dei prestiti del Lodigiano è relativo.

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