A Laus Pompeia, fra tracce celtiche e pietre millenarie

Il modo in cui le donne si vestivano e si addobbavano, la passione (come noi) per la moda “vintage”, l’usanza (strana, se ci pensi) di piegare le spade prima di metterle nelle tombe come corredo per l’anima del defunto. Pensi a Roma e ti vengono in mente l’Impero, le Legioni alla conquista dell’Europa, le battaglie e le campagne militari. Invece quella che traspare dalle teche del museo Laus Pompeia di Lodi Vecchio è la vita di tutti i giorni di persone che qualche migliaio di anni fa camminavano dove camminiamo noi ora, mangiavano come mangiamo noi e come noi mettevano da parte soldi (loro in vasi di terracotta, noi in banca ma forse erano più al sicuro i loro) in vista della vecchiaia. Uno di quei vasi fu trovato nel 1892 in un campo dal nome che pare uscito dalla fiaba di Pinocchio: campo di San Michele del podere Lavagna. Era di terracotta ed era chiuso da una ciotolina in argento. Dentro c’erano decine di monete del terzo secolo dopo Cristo. Lo trovò un contadino e anche qui il richiamo alle fiabe è questione di un attimo. Il “tesoretto di San Michele” lo chiamarono. Molte monete andarono perse, il vaso pure. La ciotola e parte del tesoretto sono invece al salvo, in una teca di quello che fino a qualche anno fa era un fienile con stalla annesso alla Corte bassa, un’azienda agricola sorta senza tanti complimenti su quello che oggi è un libro (aperto) di storia. Basti pensare che nel 1879 usarono la dinamite per tirare giù quel poco che restava dell’antica Cattedrale di Santa Maria, sorta sul finire del IV secolo nell’area dove sorgeva un edificio pubblico: «I resti di fondamenta in sasso sono quelli dell’edificio romano, una basilica nel termine di luogo riparato dedicato alle transazioni commerciali e alle discussioni pubbliche. Quelli in mattoni sono della Cattedrale» spiega Daniele Pavesi, l’archeologo che - con passione e pazienza - accompagna turisti (e cronisti) a visitare il museo e l’area archeologica (per l’occasione a ricevere la troupe del «Cittadino» c’è anche il consigliere comunale con delega al museo, Enrico Torriani). Il museo (bello, essenziale e pulito, peccato per i piccioni che l’assediano al di là delle vetrate), l’area archeologica e l’ex Conventino (un edificio sorto sui resti di una facciata di Santa Maria all’inizio del Milleseicento, dal 1998 di proprietà del Comune e oggi spazio espositivo) costituiscono tre dei quattro punti focali di questo polo culturale che meriterebbe ben più attenzione dai lodigiani. Affacciato sull’area c’è, inglobato in una casa padronale che pare sul punto di crollare, quello che rimane di un pilastro della Cattedrale, usato per costruirvi l’abitazione. Messo in sicurezza (e nient’altro, non è possibile fare alcunché dentro la casa per motivi di sicurezza) permetterà di utilizzare l’area erbosa che arriva sotto le finestre del museo per iniziative culturali e concerti, assicura Torriani senza dare però scadenze precise. Sservono tanti soldi e i tempi sono quelli che sono, inutile girarci attorno. Rieccoci quindi al museo e ai suoi reperti che raccontano di un territorio inizialmente abitato da tribù celtiche: «A scuola ci insegnano che erano Galli Boi ma non è così accertato» sottolinea Pavesi passando a illustrare una spada rinvenuta vicino alla cascina Gualdane durante i lavori per la costruzione di un collettore: «Intenzionalmente piegata in quanto nessuno, tranne il defunto l’avrebbe potuta usare». Dell’epoca celtica sono anche altri oggetti come alcune bellissime cavigliere (o bracciali, non è chiaro se anch’essi rituali) in bronzo. Il processo di lenta “romanizzazione”, cominciato nel III secolo avanti Cristo con la conquista della Pianura padana, è raccontato da ceramiche, fibule, epigrafi e altari dedicati ad Ercole (provenienti dalla sponda dell’Adda, furono trovati nell’area della chiesa della Maddalena a Lodi) e da oggetti come un vasetto con le curiose fattezze di un viso. Risale ai primi secoli della presenza romana ma è fatto con uno stile che ricalca quello celtico di qualche secolo prima. «Oggi lo chiameremmo un oggetto vintage» spiega Pavesi e capisci che la storia, alla fine, è una faccenda molto meno accademica di quanto si pensi.

(A)titolo link

© RIPRODUZIONE RISERVATA