«Ma che cucina povera! Con la creatività porto ricchezza nei piatti»

Alessandro Lochi de La Mondina ha tre ristoranti a Marudo, Lodi e Caviaga

Marudo

Lo chef Alessandro Lochi, titolare nel Lodigiano di tre locali denominati La Mondina, è un autentico genio del cibo. Però da oltre mezz’ora ci arrovelliamo sul concetto di cucina creativa: è povera, a livello di quantità di ingredienti, o è il punto più estremo del senso di un’alternativa?

Lochi, che oltre ad essere cuoco, è un imprenditore, e parla di bilanci con naturalezza, e del saldo positivo ha un culto, come una sorta di mantra esistenziale, chiarisce: «Ascoltami bene: un filetto di livello costa 40 euro a kg, se non vuoi andare sotto devi metterlo ad un certo prezzo, e chi lo ordina? La crisi morde sempre. Meglio servirsi di materie povere, ma rivisitate: un maialino da latte lodigiano, il cui costo è 9 euro a kg, laccato a miele con un fondente di carote e mirto, fa anche più effetto di una prestigiosa costata. E vuoi mettere con i costi? E poi le idee non hanno costi aggiuntivi…».

Mi chiedo cosa avrebbe combinato nella vita Alessandro Lochi se non avesse compreso che il proprio genio doveva sprigionarsi in cucina. Mi dà la sensazione di un uomo che, appena ha potuto, è scappato a gambe levate da quello che il destino sembrava riservargli. E ho la sensazione che non abbia più smesso di correre. Un maratoneta vincente dell’esistenza e del cibo. «Sono figlio di emigranti: mio padre sardo, mamma calabrese. Quando si trasferirono al Nord presero alloggio nelle case popolari in un quartiere di Monza, dietro lo stadio: a quel tempo, zona di degrado, di spaccio e delinquenza. Ho visto amici perdersi per strada. Mi sono fatto una corazza, per non perdere le relazioni con un ambiente dove comunque vivevo e senza cedere a strade di un certo tipo».

Cominciano presto le svolte della tua vita?

«Intanto, a 14 anni, sono andato alla scuola alberghiera di Ponte di Legno. C’erano professori sui cinquant’anni: non ti davano solo la teoria, ma l’esperienza. Partivo la domenica sera da Monza e rientravo il venerdì notte, certe volte mi fermavo nei week end, lavoravo in un locale a conduzione famigliare: lavapiatti, cameriere, qualcosina in cucina».

Poi?

«Nel 1995, sono andato alla leva, destinazione Taranto, Centro Addestramento Reclute. Mi chiama un pezzo grosso: Alessandro, abbiamo bisogno in cucina, alla mensa ufficiali. Restano così contenti che mi chiedono di fare l’intero anno in Puglia. Dico che è troppo distante da casa. Mi lasciano andare, e poiché erano soddisfatti dei miei servigi mi propongono un posto incantevole: a Tonezza del Cimone, vicino ad Asiago, in un residence di villeggiatura per alti ufficiali».

Concluso quel periodo, che fai?

«Qualche altra esperienza, finché mi chiamano a Milano per gestire un ristorante messicano: la paga è buona, mi danno un anticipo per bloccarmi. Poi subentro in un altro locale come chef ed amministratore delegato. Quindi vado a Londra. Non so una parola d’inglese, e mi iscrivo ad un corso promosso dalla Comunità europea: arrivo a lavorare per lo chef Marco Pier Withe, un cuoco di assoluto rilievo. Preso dalla nostalgia, rientro in Italia».

E cosa fai?

«Trovo lavoro a Milano, accettando un’offerta del Gruppo Immobiliare Giambelli, leader nella costruzione e gestione di alberghi di lusso; imparo molto, ma mordo il freno: ho 25 anni, il mio ruolo non è ancora quello di primo chef. Ed io voglio la mia autonomia».

Soluzioni?

«Vado al Gran Visconti Palace, hotel 4 stelle superiore, sempre a Milano: lì ho alle mie direttive una brigata di 14 persone, abbiamo la sala ristorante all’ultimo piano, e la sala banchetti per eventi e convegni a piano terra. Sto per realizzarmi, ma percorro altre opportunità».

Negli hotel si lavora più per le proprietà o per i clienti?

«Ho sempre lavorato per me stesso, per sprigionare la mia creatività, e per guadagnare attraverso le mie capacità. Però qualcosa cominciava a non persuadermi: gli alberghi si rivolgevano a ditte esterne, appaltando il servizio della ristorazione. Mi dicevo: vuoi vedere che prima o poi mi lasciano a casa?».

E come hai risolto il dilemma?

«Un amico mi chiese di dargli una mano in un locale di Settimo Milanese. L’amicizia per me è sempre stata un valore. Andai lì. Fu un’esperienza molto positiva, malgrado il mio amico dopo tre settimane si congedò, lasciandomi solo».

E tu?

«Proseguii, divenendo socio del locale, con il quaranta per cento delle quote ottenute senza fuoriuscite: le acquistavo offrendo la mia professionalità come contropartita del valore. È stata una costante in molti ristoranti dove sono andato: chef, ma anche imprenditore, e sempre a costo zero nella partecipazione imprenditoriale. Poi conobbi Antonio Meneghetti».

Chi?

«Era un originale artista umbro, che viveva a Marudo, e insegnava Ontopsicologia. Viene al locale: erano le 15.30, non proprio l’ora di pranzo. Lo servo lo stesso. Parliamo. Poi io mi devo fermare per un problema di salute. Mollo il ristorante, mi sposo e compro casa. Vado a vivere a Masate, in provincia di Milano».

Un periodo sabbatico?

«Sì, ma breve. Persone vicine a Meneghetti mi cercano. Quest’ultimo aveva un locale a Marudo, e si voleva comprendere che possibilità vi fossero nel rilanciarlo. Mi viene poi chiesto di gestirlo. Anche lì ho rilevato delle quote e oggi sono in società con un’altra persona».

E da lì parte un’altra storia, giusto?

«Sì, tanto da arrivare alla trasmissione televisiva Mela Verde e alle menzioni sul Gambero Rosso. Alla Mondina di Marudo cominciano ad esservi dalle 200 alle 300 persone ogni fine settimana: ho aperto un’altra cucina, affittando un locale. Oggi ho tre esercizi: oltre che a Marudo, a Lodi in via Marsala, e a Caviaga. A Marudo ho anche una pizzeria: pizza a lunga lievitazione, 72 ore, con prodotto integrale, riso nero, mais nero, canapa: per il trenta per cento l’impasto è costituito da farine alternative».

Torniamo al concetto di cucina creativa. Cosa vuole dire?

«Ogni tre mesi avverto l’esigenza di cambiare il menu. Come dicevo, contano le idee: certi piatti li realizzi con poco, ma salvaguardando l’eccellenza del gusto. Penso sia importante valorizzare i prodotti locali. Qui a Marudo abbiamo un’azienda che alleva pecore, ed io ho messo sul menu un piatto con questo animale».

In Scozia mi capitò di gustare questa pietanza: eccellente. Ma ero in Scozia, appunto!

«Concordo, è un piatto buonissimo. Paradossalmente, più puzza, più vuole dire che la pecora è selvatica, perciò buona. Però i clienti sono refrattari: va ampliato il bagaglio culturale del cibo. Ho promosso, ad esempio, il risotto con la salsiccia della Calabria, perché la territorialità va vista in senso ampio”.

Quindi non è giusto parlare di piatti poveri.

«Un piatto di “puccin” di luganega, può essere povero all’apparenza, ma se servi la salsiccia in umido con una polentina e funghi e una spuma sifonata di grana lodigiano di 24 mesi con polvere di pomodoro, allora, offri una pietanza di una ricchezza visiva straordinaria e di squisita bontà. Sperimentare è importante».

Approfondiamo il concetto?

«Immagina questa proposta: risotto con cacao e pere, aromatizzato alla grappa spray. Qui riprendo le competenze di quando lavoravo al ristorante messicano, dove il caco amaro è molto utilizzato, aggiungendo la novità dell’utilizzo di uno spray per la grappa: sii sincero, l’hai visto mai fare da qualche altra parte?».

A proposito di sud America. Ma la ristorazione etnica, in senso lato, avrà un futuro?

«È permanente. Il mondo è cambiato: parliamo meno di globalizzazione, perché ci siamo completamente dentro. I cambiamenti riguarderanno altro».

Ad esempio?

«Le piccole trattorie e i ristorantini tra vent’anni non ci saranno più, soppiantati dalle catene commerciali: i costi stanno diventando insostenibili, impossibile affrontarli da soli. L’energia oggi si paga il trenta per cento in più: come si fa a stare dentro le spese?».

In effetti…

«La ristorazione è già cambiata: oggi ci sono rigidi turni di lavoro, più di tot ore non puoi fare svolgere ad un collaboratore, ma la gente sta al tavolo sino alle 16.30, e chi sparecchia? I giovani hanno meno voglia, poca voglia di sacrificarsi: se trovano una scorciatoia, la prendono. Io alla loro età guardavo al futuro, mentre i ragazzi di oggi pensano all’immediato».

Dove sarai tra vent’anni?

«Ho tre figli piccoli, vorrei trascorrere più tempo con loro. Mi immagino vicino a casa. Ma sempre cucinando, soprattutto creando».

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