«Il fascino della pasta fresca e delle erbe dei campi lodigiani»

Amalia Nichetti, chef del ristorante Gaffurio di Lodi: «Oggi ho raggiunto finalmente

Lodi

Amalia Nichetti, chef del ristorante Gaffurio di Lodi, mi racconta la sua già lunga e consolidata esperienza professionale intrecciandola con le tessiture più profonde della sua esistenza. Quella serenità interiore che dice di avere raggiunto è sicuramente un traguardo realizzato, ma al tempo stesso ingannevolmente apparente: perché Amalia è sempre oltre, e nella nostra conversazione usa più volte il verbo studiare, relativo alla sua esigenza di approfondire, sperimentare, comprendere i gusti altrui abbinandoli a cibi innovativi e che al tempo stesso non rinneghino le tradizioni. La osservo attentamente: tutte le persone determinate tolgono qualcosa alla propria bellezza. Lei, invece, abbina il suo indiscutibile fascino ad una tenacia che non conosce sconti. Una sintesi perfetta.

Amalia, come devo chiamarti?

«In che senso?»

Chef o professoressa?

«Alludi alla mia recente laurea in Lettere? Era una cosa a cui tenevo. Mi chiedevo che significato avesse avuto essere arrivata ad un esame dalla laurea, e poi avere piantato tutto. Così, durante il periodo del Covid, quando era tutto chiuso, ho colto quest’opportunità: mi sono rimessa sui libri e mi sono laureata. Da bambina, volevo fare la giornalista. E, comunque, la tesi ha avuto un argomento attinente al mio lavoro; il titolo è stato: ‹Cibo, territorio ed uomo›”, relazioni fondamentali».

Ti sei mai data la risposta sul perché quell’unico esame non l’avevi più dato?

«Credo per un condizionamento inconscio. Anche i miei erano ristoratori, e papà mi ripeteva sempre che studiare aveva sì la sua importanza, ma era il lavoro ciò che ti dava veramente da vivere. Nel nostro caso, la ristorazione. Quell’esame non sostenuto segnava la distanza tra la dura e concreta manualità in cucina e un’ambizione, che restava come un desidero personale, qualcosa che fa cultura ma non produce sostanza. Adesso questo divario è stato finalmente colmato».

Posso fare una domanda indiscreta alla chef?

«Dipende».

Ma nella salsa di pomodoro, lo zucchero, un pizzico almeno, ce lo mettiamo o come dice chef Cannavacciuolo si tratta di un’aberrazione?

«Un’aberrazione assoluta. Il segreto di una buona salsa sta nel pomodoro di stagione: è il sole che rende zuccherosa la polpa, è la luce della natura ad addolcirla».

Altra domandina impertinente: qual è il piatto che più temi?

«Non un piatto, ma i dolci li considero un’insidia. Dev’essere un retaggio atavico, perché anche mia mamma si agitava quando doveva prepararli. Io poi normalmente mangio salato. Però capisco che ci sia chi voglia concludere così il proprio pasto, c’è l’esigenza di appagare i sensi, e il dolce evidentemente aiuta».

La tua è una cucina avveniristica?

«Mi piace sperimentare, ma sono al tempo stesso legata alla tradizione: in primavera vado sui campi del Lodigiano a cercare le ortiche, i fiori della robinia da fare in pastella, e cerco di dare una certa importanza al territorio esaltando ad esempio i suoi formaggi. Poi è fondamentale il rapporto col cliente: se offri qualcosa che la gente non chiede è inutile ostinarsi a proporlo».

Esiste una relazione empatica tra cliente e chef, già dalle scelte che si fanno per il menu?

«Esiste, certo. Ci sono tavolate con cui si entra immediatamente in sintonia, è come un sesto senso: guardi il cameriere che porta la comanda e comprendi che il tuo lavoro sarà capito ed apprezzato».

E vi sono, viceversa, situazioni, in cucina, che ti hanno creato dispiacere?

«Ho sofferto quando un cibo non è stato immediatamente capito, o comunque ha necessitato di maggiore tempo per essere apprezzato: il risotto alla barbabietola, quello alla curcuma, mascarpone, fichi e il chutney. Poi questi piatti, gradualmente, sono entrati nel cuore della gente. Ho imparato che se proponi qualcosa di nuovo devi supportarlo con un’operazione intelligente di marketing».

Quali sono i tuoi piatti preferiti?

«Tutti i primi, ma anche i secondi. Certo, ho un debole per la pasta fresca, che ha per me un richiamo irresistibile. Penso, ad esempio, ai ravioli ripieni col pannerone, addolciti col porro, e appena un pizzico di ricotta, con infine una delicata pennellatura di miele sul piatto. Prossimamente proporrò invece il raviolo con il ripieno di gorgonzola blu, quello piccante, temperato da tocchetti di mele».

Quando hai cominciato quest’avventura al ristorante Gaffurio?

«Era l’anno 2009, prima ero con una socia in un altro locale, Il Perbacco, a Cavenago d’Adda, inaugurato nel 2002. Però voglio fare una precisazione».

Di cosa si tratta?

«Il Gaffurio è di proprietà del mio compagno, Vittorio; anche lui proviene dalla ristorazione, cioè dallo storico locale Torretta di Lodi, oggi gestito da suo fratello. Vittorio è una figura fondamentale della mia vita: abbiamo un bambino e nei programmi anche il desiderio di sposarci. Relativamente al ristorante, formalmente io sono una sua dipendente. Vittorio è una persona che mi ha aiutato a crescere, ha fatto si che la mia professionalità continuasse ad ampliarsi nel tempo».

Come?

«Con lui io parlo spessissimo di cucina. Insieme studiamo cosa e dove occorre migliorare. Nelle serate libere ceniamo a Milano presso i ristoranti stellati, perché c’è sempre da imparare. Con lui condivido il mio percorso. Usiamo lo stesso linguaggio, e questo mi aiuta tantissimo. La sintonia professionale è stata complementare alla crescita della relazione umana ed affettiva. È un legame che mi fa stare bene».

Dove ti vedi tra dieci anni?

«Vorrei lavorare all’estero. A me piace viaggiare. Sono stata anche in India perché, nel passato, per un periodo, ho fatto l’insegnante di yoga e sono andata a specializzarmi lì. Andrei negli Stati Uniti: mi piacerebbe sperimentare la mia cucina in un contesto che immagino libero, arricchito dalla globalizzazione, e dove il concetto di ristorazione sia il più ampio possibile, non esclusivamente vincolato al piatto da servire. Ma riparliamone tra dieci anni».

In ogni caso, bella vita, quella di voi chef!

«Dici? Può diventarla, certo. Ma ad alcune precise condizioni: quella, ad esempio, di sapersi prendere della pause, dei momenti di svago, di non rinunciare alle vacanze. Altrimenti restano solo i sacrifici, le rinunce. Arrivi a questo equilibrio solo se hai accresciuto la tua professionalità. Se hai saputo creare una squadra che, anche quando non ci sei, è come se ci fossi comunque».

Che caratteristiche deve avere chi lavora nel tuo gruppo?

«L’umiltà. Passami una battuta: deve imparare a stare zitto. Prima regola: fare andare le mani, per un lungo tempo. Mi è stata utile l’esperienza che ho maturato quando facevo teatro».

In che senso?

«Sul palcoscenico devi sapere rispettare spazi e tempi a beneficio degli altri attori, spostarsi al momento opportuno per fare giungere la voce di chi, sulla scena, sta poco dietro. Ecco, ci vuole il rispetto. Anche in cucina».

Che tipo di capo sei?

«Oggi, che ho raggiunto finalmente il mio equilibrio, mi vedo più come una formatrice: ci tengo che da me si possa imparare. Però, quel senso di tirannia che inevitabilmente viene associato a noi chef, resta sul filo del rasoio, certe volte emerge, inutile fingere: più alzi il livello più è giusto pretendere, da se stessi e da chi ci collabora. Però non va mai dimenticato che stiamo facendo un piatto di cucina, non un’operazione a cuore aperto».

Quali altri segreti occorrono in questo mestiere?

«Oltre alla professionalità, essere tenaci, non rinunciare a studiare, fare quadrare i conti, non essere avidi e non avere mai paura: a quel punto giunge la parte creativa dell’essere chef. Inoltre in questo lavoro ci sono molteplici stimoli, fisici, mentali, sociali, con una molteplicità di rapporti interpersonali. È una sfida continua, ogni volta sei costretto ad uscire dalla tua zona comfort».

Un’ultima curiosità: quanto sei contenta oggi di te stessa?

«Molto, davvero. Come chef e come persona. Però, prima di pubblicarlo, mi fari rileggere l’articolo, vero?».

Che domande, chef Nichetti: ma un cliente al tuo ristorante sarebbe mai autorizzato ad assaggiare un piatto prima di scegliere se ordinarlo?

«In effetti, no».

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