L’INTERVISTA - Suor Monia Alfieri: «Il pluralismo educativo garantisce la democrazia»

La religiosa, volto noto di Rete 4, martedì sarà a Lodi Liberale

Lodi

Suor Anna Monia Alfieri, classe 1975, una laurea in Giurisprudenza e una in Economia, oltre al diploma in Scienze Religiose, è una delle voci più autorevoli in Italia per quanto riguarda il diritto a un’istruzione libera, e quindi che parta dalla tutela del pluralismo educativo garantito dalle scuole paritarie che, in realtà, si trovano in particolare difficoltà in Italia, mettendo a rischio, secondo Alfieri (che martedì sera sarà ospite di un evento organizzato dall’associazione Lodi Liberale, alle ore 21 in sala Rivolta), uno dei cardini del sistema democratico del nostro paese.

Partiamo proprio col chiarire cosa si intende per scuole paritarie e perché, a suo parere, sono un elemento fondante della democrazia...

«Non sono io a dirlo, ma la Costituzione italiana, e addirittura la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che garantisce la libertà di scelta educativa. La scuola paritaria accreditata, che è pubblica tanto quanto quella statale, infatti conferisce titoli equipollenti, ma è gestita da privati, è essenziale in una democrazia fondata sull’istruzione libera e diffusa. In tutta Europa il suo accesso è libero e garantito, ma in Italia di fatto non lo è per tutti, e questa è un’anomalia.

Si riferisce al costo delle rette?

«I genitori degli studenti che scelgono la paritaria pagano due volte: prima pagano le tasse, e poi le rette. Il costo medio dell’istruzione di uno studente è di 7mila euro l’anno. Lo Stato italiano investe ogni anno 10mila euro per ogni studente della statale, mentre alle paritarie vengono dati contributi per 700 euro in media. Questo ha costretto le scuole paritarie a introdurre le rette che, però, spesso sono sottocosto, costringendo molte scuole paritarie a chiudere».

Quali sono i numeri delle chiusure?

«Oggi in Italia ci sono in media 770mila alunni delle paritarie, mentre sono più di sette milioni gli quelli delle statali. In 20 anni abbiamo avuto un crollo del 35 per cento degli alunni delle paritarie, e hanno chiuso più di duemila scuole paritarie in dieci anni: ne sono rimaste 11.400».

Questo cosa comporta?

«Le paritarie sono a un bivio: o chiudono, o alzano le terre. Una certa ideologia fa finta di non vederlo, ma questo è un problema enorme, che non riguarda i ricchi, perché i ricchi avranno sempre i soldi per pagare, ma riguarda le scuole dei poveri, delle periferie, del sud. Il pluralismo al Sud ormai è praticamente inesistente, e questo ha un gravissimo risvolto anche sociale, perché favorisce la dispersione scolastica, senza contare i costi enormi che lo Stato dovrebbe sobbarcarsi per sostituirsi alle paritarie».

Quindi come mai persiste un approccio ideologico contrario alle paritarie?

«Si tratta proprio di un approccio ideologico fondato su una disinformazione che a mio parere è stata costruita ad arte da tre componenti: il potere politico, che ha un certo interesse perché considera le scuole un bacino elettorale; i sindacati, che hanno visto la scuola come un postificio, con tutte le conseguenze evidenti che vediamo, ad esempio le cattedre vuote nel Nord e i precari nel Sud; e infine la burocrazia, perché quei diecimila euro che lo Stato investe per ogni studente delle statali non vanno alle scuole, ma alla burocrazia di un sistema che fa acqua da tutte le parti. Quindi, ribadisco: questa non è una battaglia dei ricchi, che la retta non hanno problemi a pagarla, ma dei poveri. È una battaglia di sinistra, è una battaglia sociale che riguarda tutti: significa dare a tutti le stesse possibilità di riscatto. Ma capisco che, per un potere politico mediocre, l’emancipazione dei poveri fa paura».

Questa situazione, mi sembra di capire, danneggia anche le scuole statali. È vero?

«Certo. Vediamo cosa è accaduto con il Covid: la scuola italiana ha tenuto aperto a macchia di leopardo, il sovraffollamento ha costretto alla Dad, che ha lasciato indietro un milione di poveri e trecentomila disabili. Il dirigenti scolastici gestiscono un’impresa complessa ma non hanno autonomia organizzativa, si vedono mandare i docenti da Roma e non hanno voce in capitolo. Infine pensiamo alle difficoltà di molte classi che sono multiculturali, in cui si parlano tre o quattro lingue diverse e si creano delle ghettizzazioni: se le paritarie fossero più accessibili, anche gli studenti stranieri con meno possibilità economiche potrebbero accedervi, e l’integrazione sarebbe più diffusa e meno problematica».

Si delinea il quadro di un vero e proprio fallimento dell’agenzia educativa nel nostro Paese, quindi?

«Un fallimento, sicuramente, di cui i giovani purtroppo pagano lo scotto. I giovani hanno bisogno di una comunità, la scuola dovrebbe lavorare con la chiesa, la stampa, i teatri, la società civile, le imprese, per costruire una comunità educativa. Invece assistiamo a una profonda frammentazione della società e alla mancanza di una visione d’insieme, alla crisi della famiglia come cellula fondante della società, alla svalutazione e delegittimazione dei docenti. Tutto questo ha ricadute psicologiche di ampio respiro sui ragazzi, che possono tradursi persino in violenza. Se non siamo in grado di riempire di senso le loro vite, loro riempiranno le nostre vite di nonsenso. La soluzione non è certo la repressione. Non ci sono ricette, ma l’auspicio che si recuperi un linguaggio più moderato, meno distruttivo, che noi adulti, in primis chi ha potere decisionale e di rappresentanza, comincino a lavorare in sinergia costruendo una comunità educativa».

In che direzione si muove il Governo?

«A parole, ha dimostrato sensibilità, ma nei fatti molto meno. Siamo alla seconda manovra finanziaria e sono stati messi a bilancio solo 50 milioni di euro per le scuole dell’infanzia, messi perché consapevoli che altrimenti il sistema collasserebbe».

Chiudiamo con un episodio di cronaca che ha fatto molto discutere: la decisione di una scuola di Pioltello di chiudere per la festività della fine del Ramadan. Cosa ne pensa?

«Per come sono fatta, fatico a misurarmi con un approccio ideologico, sono più pragmatica. Se il consiglio scolastico ha deliberato la chiusura, questa deve essere rispettata perché l’autonomia di una scuola è sacra. Sono convinta che la scuola non debba essere tirata in ballo in questioni politiche o religiose: mi sembra inopportuno. Le nostre radici ci hanno portato a organizzare i calendari scolastici e lavorativi sulle festività cattoliche: è una convenzione, che per carità, si può cambiare, ma per ora è così, ed è impensabile che si chiuda per tutte le festività di ogni religione. La scuola dovrebbe tuttavia avere la flessibilità tale da consentire a tutti gli studenti di adempiere al loro percorso di fede. E quindi, se il quaranta per cento degli studenti si assenta per la festività islamica, giustificare la loro assenza e reinserire gli studenti valutando che il loro percorso scolastico non ne risulti compromesso e, nell’eventualità, organizzando corsi di recupero».

© RIPRODUZIONE RISERVATA