Vittoria e sconfitta russa nella martoriata Ucraina

L’analisi del professor Massimo Ramaioli

All’indomani di due settimane di guerra in Ucraina, due elementi sembrano emergere. Primo: la Russia otterrà prima o poi una vittoria tattica, ovvero militare, nel conflitto. Secondo: la Russia non potrà evitare una sconfitta strategica, ovvero politica. Queste considerazioni sono solamente in apparente contraddizione. Da un punto di vista militare e logistico, l’esercito russo, otto volte quello ucraino per effettivi, meglio armato ed addestrato, avrà ragione delle forze regolari di Kiev. Questo avverrà probabilmente attraverso l’intensificarsi del bombardamento di artiglieria sulle principali città ucraine; e un più massiccio uso della forza aeronautica, sin qui non usata appieno dai russi.

Il fatto che sinora l’avanzata delle truppe russe sia descritta da vari analisti come lenta dipende da due fattori. In primo luogo, la pianificazione dell’invasione e la sua gestione logistica sono state tutto meno che inappuntabili. In secondo luogo, ciò sarebbe dipeso anche dal fatto che i russi si aspettavano la capitolazione dell’Ucraina (sia come regime, sia come popolazione) nel giro di qualche giorno: invece, l’esercito ucraino ha dato prova di grande resilienza, ed è stato capace di infliggere perdite non trascurabili a quello russo. Questo ha sorpreso i decisori di Mosca. Già si profila, in ogni caso, nel momento dell’entrata dei russi a Kiev, Mariupol e Karkiv, battaglie urbane durissime, condotte contro effettivi dell’esercito ucraino, milizie partigiane, e anche combattenti stranieri. Per l’esercito di Mosca, si rivelerebbe uno stillicidio. La differenza tra l’invadere un paese dalla popolazione ostile e controllarlo sta tutta qui - e i precedenti sono sempre a sfavore degli aggressori, i quali prima o poi dai territori invasi se ne devono andare, a differenza di chi lì ci vive.

È a questo punto che la vittoria militare si trasformerebbe in sconfitta politica. La Russia ha ricalibrato le sue richieste per un accordo negoziale. Ha rimosso la “denazificazione” dell’Ucraina, parossistica formulazione per indicare il cambiamento di regime (ovvero, la rimozione di Zelenskyy, che rischia di passare alla storia come eroe nazionale). Ha escluso la conquista totale del paese e la sua incorporazione nella Federazione Russa (cosa che Putin aveva paventato qualche giorno dopo l’inizio delle ostilità). Esige ora, più limitatamente, il riconoscimento internazionale dell’annessione della Crimea del 2014, il riconoscimento delle repubbliche del Donbass quali stati indipendenti, e la smilitarizzazione e neutralizzazione dell’Ucraina.

Sono ancora richieste massimaliste, ma attorno alle quali ci si può sedere per discutere in un futuro prossimo. Anzi, i primi segnali vi sono già: i ministri degli esteri dei due paesi si sono incontrati ad Antalya, in Turchia, con il governo di Erdogan, che ha buoni rapporti sia con Mosca che con Kiev, a far da mediatore. È uno sviluppo importante, al di là del fatto che non si sia arrivati ad un cessate il fuoco. Innanzitutto, si tratta di delegazioni di alto livello. Infatti, è trapelato che Putin e Zelenskyy potrebbero incontrarsi tra non molto. In secondo luogo, c’è la scelta di una sede neutrale, non la Bielorussia filorussa di Lukashenko come accaduto finora.

Ma appunto: se anche le domande massimaliste del Cremlino venissero accolte in toto (difficile, per non dire impossibile), cosa rimarrebbe a Putin nel momento di firmare gli accordi? L’Ucraina non era comunque in procinto di entrare nella NATO o nell’UE; la Crimea era già, de facto, russa; il Donbass pure. Non basta. I confini orientali della NATO (lungo il Baltico e nel Mar Nero) non erano molto militarizzati. La stessa alleanza appariva spenta e disfunzionale. I principali paesi europei (in primis, Germania e Italia) erano desiderosi di fare affari con Mosca, e non avevano intenzioni di spendere risorse per i propri bilanci militari. Tutto questo ora è cambiato: inclusa l’emersione di un’Ucraina profondamente anti-russa come lo sono Polonia, i baltici, la Romania, cosa che non era prima del conflitto.

Si apre dunque un nuovo scenario, che durerà sicuramente finché Putin starà al Cremlino. La sua è sin d’ora una morte politica: suggellata da una nuova cortina di ferro che calerà non nel mezzo dell’Europa, ma ai confini occidentali di una Russia semi-paria a livello globale.

* Massimo Ramaioli si è laureato all’Università di Pavia in Scienze Politiche e ha poi proseguito gli studi con esperienze negli Stati Uniti, in Africa e in Medioriente. È Visiting Professor presso la Al-Akhawayn University di Ifrane, Marocco.

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