VIDEO Il primario Diego Taveggia lascia l’Asst per Medici senza frontiere

Andrà a coordinare i progetti di cure palliative nei paesi a medio e basso reddito

Porterà le cure palliative nei paesi poveri, per garantire una morte migliore e senza sofferenze a chi è sopraffatto da guerre, epidemie, Aids, malnutrizioni e patologie neonatali. Diego Taveggia, anestesista, direttore delle cure palliative dell’Asst di Lodi, ha chiesto l’aspettativa di un anno. Da settembre, dopo 13 anni nel Lodigiano, si occuperà del fine vita per Medici senza frontiere, una delle organizzazioni non governative più conosciute al mondo.

Dottor Taveggia, ci spiega cosa farà?

«Andrò a lavorare per Medici senza frontiere Uk, ho un contratto di consulenza. È la prima organizzazione nel mondo a voler rendere strutturale il tema della qualità del fine vita. Quest’ultima è pioniera in tantissimi campi, ha a che fare con 40mila morti all’anno, in oltre 70 paesi e la maggioranza di loro ha meno di 5 anni».

Il primo passo quale sarà?

«Inizialmente si tratterà di fare un’analisi, capire di cosa hanno bisogno gli operatori sul campo per far fronte alla mortalità delle persone nei vari contesti, quali e quante figure servono, quali farmaci o presidi sanitari, per esempio. Si tratta di mettere in rete l’enorme quantità di risorse e i vari progetti di cure palliative di Medici senza frontiere. In questa prima fase, potrò lavorare da remoto, cioè da casa mia, a San Donato, poi mi sposterò a Londra, Parigi, Amsterdam e Roma, dove sono collocate le sedi di Medici senza frontiere che supportano questo progetto».

Quali sono i bisogni?

«Si stima che dei 57 milioni di persone che hanno bisogno di cure palliative nel mondo, solo 3 milioni le ricevano e siano tutte nei paesi ad alto reddito. Nei paesi poveri, invece, vivono ben il 78 per cento degli adulti e il 96 per cento dei bambini bisognosi di cure palliative. Si stima che i 2 terzi dei nuovi casi di tumore nel 2035 saranno diagnosticati nei paesi a medio e basso reddito. La mortalità per Hiv, nel 2050, mentre da noi è azzerata, nei paesi poveri sarà probabilmente 5 volte più alta. La qualità del fine vita non è mai stata una priorità in nessun posto, nemmeno in Italia, per questo è ancora più apprezzabile lo sforzo di Medici senza Frontiere».

Come mai la scelta di lasciare Lodi?

«I paesi in via di sviluppo, che adesso si chiamano “paesi a medio e basso reddito” sono sempre stati un mio “pallino”, me ne sono sempre occupato, prima di venire a Lodi e prima di mettere su famiglia. Con i bambini piccoli questo aspetto è stato un po’ accantonato, ma mai dimenticato. Oggi ho l’opportunità di mettere in campo tutto quello che ho imparato in 13 anni. Sono arrivato a Lodi come palliativista, poi mi sono spostato, negli anni, sulla parte più organizzativa e manageriale, di sanità pubblica, a discapito della presenza sul campo».

Il lavoro sul campo non le manca?

«Sono due lavori diversi, è difficile farli insieme. Certo che mi manca; ogni tanto ho bisogno di tornare a farlo per capire il senso di tutto il resto, se no si rischia di dimenticare le ripercussioni sulle persone delle scelte prese agli alti livelli».

Quindi adesso ogni tanto torna direttamente a occuparsi dei pazienti?

«Sì, capita, se richiesto dai collaboratori per casi difficili, o laddove c’è una relazione già diretta o di affetto con l’utenza».

Mi diceva che si è già occupato di progetti umanitari prima di venire a Lodi...

«Sì, da studente di medicina ho contribuito a fondare in India il “Calcutta project village”, adesso si chiama “Project for people” ed è presente anche in Benin e in Brasile. Sono stato in India varie volte con questa organizzazione e altri studenti di medicina provenienti da tutto il mondo. Ci occupavamo di medicina di base e prevenzione soprattutto. Quando ero in specialità, invece, sono stato un anno in Uganda, come anestesista, con l’Associazione italiana solidarietà tra i popoli. Era in corso la cosiddetta Guerra dei bambini soldato. Mi occupavo di anestesia e terapia intensiva se si può chiamare così visto che c’era una stanza a 6 letti con un respiratore».

Quanti anni ha dottore?

«Ne ho 48, mi sono laureato a Milano e sono venuto a Lodi, nel febbraio 2010. Sempre per quanto riguarda i progetti nel resto del mondo, mi sono occupato di medicina tradizionale cinese e ho vissuto in Cina per un periodo».

In Cina?

«Mi sono specializzato a Milano Bicocca, con una tesi in Spagna, poi ho deciso di occuparmi di medicina tradizionale cinese, a Nanchino, sede della famosa università. Ad un certo punto un collega agopuntore mi ha detto che stavano cercando un medico che si occupasse di cure palliative negli oncologici al Bassini di Cinisello, qualche ora, quasi come volontario. Da quel momento ho iniziato a occuparmi di cure palliative e non le ho più lasciate. Sono stato a Giussano e poi a Lodi».

Per un medico occuparsi di cure palliative è un controsenso?

«No, in realtà è il senso vero dell’essere medico. Ho fatto il rianimatore perché per me è colui che sa di più di tutti, conosce meglio di chiunque altro la fisiopatologia dell’uomo. Poi mi sono accorto che nemmeno quella fetta della medicina spiegava tutto. Non riuscivo nemmeno così a capire perché certe cose capitassero a qualcuno e ad altri no. Allora mi sono buttato sulla medicina tradizionale cinese che invece lo spiegava un po’ di più, ma anche qui mancava qualcosa».

Le cure palliative allora?

«Con le cure palliative il medico si occupa a 360 gradi del paziente, non solo della sua malattia. Si considera la persona nel suo contesto emotivo, spirituale, relazionale. Per questo ha molto senso per un medico fare cure palliative. Puoi prenderti cura di tutti gli aspetti della vita di una persona».

Però di una persona che sta per morire... Il medico non salva vite?

«I giovani medici vogliono salvare tutti, anche io appena laureato ero così, ma l’accettazione della morte fa parte dell’individuo. Anche quando non può guarire, la medicina deve curare».

Le storie che si porta dentro di più?

«Le storie che mi porto dentro e che non ho mai superato sono quelle che hanno coinvolto i bambini. Con i bambini per me salta un po’ tutto, anche il discorso teorico. Ho colleghi che se ne occupano con estrema professionalità e sanno essere distaccati, io non sono capace. I bambini mi fanno andare in corto circuito, gioca molto l’immedesimazione. Io ho due figli di 14 e 12 anni, penso sia per questo».

Lei è credente?

«Non sono ateo, ma agnostico. Ho qualche forma di spiritualità. Mi pongo delle domande di senso, ma non ho ancora trovato delle risposte nella religione, così come mi è stata presentata in questo paese»

La morte le fa paura?

« Come tutte le cose, se le conosci fanno meno paura, forse mi sono messo a conoscerla proprio per esorcizzarla. Chissà..».

A Lodi siete molto apprezzati...

«Nel 2009 seguivamo 50malati in un anno, adesso ne seguiamo 800, con una mortalità nella nostra provincia di 2mila morti all’anno, compreso chi muore all’improvviso, in ospedale o in Rsa. Vuol dire aver cambiato drasticamente il modo di morire a Lodi. In 13 anni abbiamo accompagnato tra le 7 e le 8mila famiglie. In pratica siamo entrati in contatto con ogni lodigiano. Abbiamo 8 medici oltre a me, 20 infermieri e 12 Oss. Siamo una realtà fatta di tanti mattoni, ma nessuno di questi è più importante dell’altro».

Sarà più facile garantire le cure palliative all’estero?

«Sarà molto più difficile, per aspetti legali, sociali. culturali e geografici. È proprio qui, non da noi, che c’è un vero bisogno di garantire la qualità del fine vita».

«È spaventato?

«Spaventato, ma anche entusiasta Un grazie va al mio gruppo e anche alla direzione dell’Asst che non ha ostacolato la mia scelta. Msf vive al 100 per cento di donazioni di privati, un grazie andrà anche a quanti vorranno effettuare una donazione collegandosi al sito www.medicisenzafrontiere.it».

Il primario Diego Taveggia andrà a lavorare con Medici senza frontiere. Video di Cristina Vercellone

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