La bellezza e il valore della semplicità

Vincenzo D’Ambrosio è il pizzaiolo del Calicantus di Lodi e ha pochi dubbi: «Ridurrei le pizze a due, la Margherita e la marinara: senti il vero sapore del pomodoro e della pasta»

Vincenzo D’Ambrosio, anche grazie alla propria arte nel fare le pizze, lui che da qualche tempo lavora nel prestigioso locale del Calicantus di Lodi, esalta la bellezza ed il valore della semplicità. A tavola, come nell’esistenza. Certe volte, banalizza. Non tutto può essere riconducibile, infatti, alla bellezza. Ma Vincenzo dalla vita ha sicuramente meritato i galloni di ammiraglio: ha conosciuto, nella ristorazione, le gioia e i momenti aspri, le affermazioni e pure un paio di manrovesci, da cui ha saputo rialzarsi. Racconta di sè, di quando era bambino, e nel riconoscersi adesso un uomo maturo, che ha vinto e ha perso qualcosa, che ha visto sgretolarsi certezze e ha saputo ricomporre sogni dai propri desideri, si rende conto di come tutto si svolga in un fazzoletto di giorni: un tempo indefinitamente lontano, lontanissimo, e che tuttavia sembra di potere toccare con la mano, solo allungandola di poco.

Vincenzo, lei lo conosce Raffaele Esposito?

“E chi non lo conosce?!”

E chi era?

“Un mio conterraneo, anche se lui era di Napoli, mentre io sono originario di Angri, provincia di Salerno. Ma non è vero quello che racconta la storia: non fu lui ad inventare la pizza Margherita in onore della regina.”

E allora come andò la vera storia?

“Fu la regina stessa a chiedere che a quella pizza, come di consueto di sola farina e mozzarella sopra, fossero aggiunti il pomodoro ed il basilico. E proprio per questo, quella pizza, assunse il nome della regina: perché fu lei a sceglierne gli ingredienti. Ma non voglio certo mancare di rispetto alla memoria di Raffaele Esposito.”

Come si stava ad Agri?

“Male. Non c’era niente. Papà lavorava sui campi, ed io lo seguivo. Ma compresi subito che lavorarvi in due non aumentava il reddito. E allora raggiunsi mio fratello al Nord, che faceva già il pizzaiolo.”

La vostra è una storia di famiglia.

“Mio fratello ed io lavoravamo con lo zio Giordano, che aveva la pizzeria Grotta Azzurra in corso Adda a Lodi. Successivamente, nel 1995, ho rilevato la pizzeria Vesuvio, altrimenti nota come i Tre scalini. Ho lavorato lì per 23 anni, con mia moglie Cleonice ed i nostri figli.”

Poi cosa è accaduto?

“La proprietà voleva un affitto diverso, ed io non potevo onorarlo. Pensavo di trovare un’alternativa. Ma le cose non sono andate come speravo. Ho dovuto fare altri lavori. Quando è arrivata la pandemia pensavo che tutto andasse veramente a rotoli. Ma la vita è bella, va goduta, evitando di perdere la speranza, perchè ti offre sempre un’altra possibilità. Non sarò più imprenditore, ma faccio il lavoro che mi è sempre piaciuto.”

È andata bene.

“Mi è stato offerto di lavorare durante i week end in uno dei locali del Calicantus. Dopo il primo fine settimana, mi è stato proposto l’impiego a tempo pieno. Ho così potuto continuare a realizzare il sogno della mia vita: quello di stare dietro al banco delle pizze. Mi creda: è come un modo di guardare il mondo, dall’altra parte.”

E cosa vede?

“Oggi che la gente ha ancora paura di tornare a divertirsi, dopo la pandemia. Ma ci sta provando. Ci vorrà tempo.”

Allora, qual è il vero segreto per una buona pizza?

“Il lievito. L’impasto deve essere costituito da acqua, farina e lievito; la lievitazione deve avere una durata di 48 ore. La temperatura del forno occorre invece che sia intorno ai 300 gradi.”.

Una pizza sfama un avventore di buona forchetta?

“Sicuramente. La pizza è un pasto completo. Certe volte io non capisco quelli che con uno snack pensano di avere pranzato o cenato. Ciò che fa sostanza, invece, è proprio una buona pizza. Altrimenti non avrebbe avuto questo successo che ha nel mondo.”

Esagerato!

“Se lo faccia dire: la pizza è universale, trasversale, veloce da preparare, nutriente, è anche consigliata nelle diete perché non ingrassa.”

Però di notte, dopo averla mangiata, si beve tanto.

“Non è vero. Se ci si attacca al bicchiere, vuole dire che non aveva la giusta levitazione, o non era cotta bene: la relazione tra temperatura e cottura, come spiegato, è fondamentale. Per essere buona, la cottura della pizza deve essere di circa quattro minuti, a volte meno quando il forno è a legna.”

Ma questo impasto, oltre che ben lievitato, come dev’essere?

“Con la farina macinata a pietra, dove c’è anche la fibra dentro: nelle proporzioni, 80 per cento farina doppio zero, la rimanenza è crusca.”

Ma nel menù del locale c’è la pizza dell’ammiraglio Vincenzo?

“Resto sbalordito quando in elenco trovo 60 pizze: alle noci, alle pere, alla mostarda. Alla mostarda, capisce? Personalmente le pizze le ridurrei a due tipi soltanto, com’era nel passato. Poi, certo, il cliente ha le sue esigenze e convinzioni.”

E quali sono queste due pizze?

“La Margherita e la Marinara: senti il vero sapore del pomodoro e della pasta. Ma sa come siamo noi con i capelli bianchi?”

Sarà che io li ho ancora neri, mi spieghi pure.

“Si torna sempre a desiderare le origini. Mia mamma era della costiera amalfitana, e lì c’era il pane tostato, l’integrale insomma, e la pizza era solo con le acciughe e il pomodoro: questa era la vera pizza Napoli, altro che mozzarella, quella è venuta dopo.”

Allora, cuciniamo questa bella Napoli, ma cosa ci accompagniamo da bere?

“Vuole la verità?”

Vorrei la parola dell’esperto.

“Una birra. Con la pizza va bevuta solo la birra. Non troppa. Non trattata. Un bicchiere basta e avanza.”

Tempo fa ho anche assaggiato un piatto di pasta fatto da lei. Ne ho conservato memoria, Vincenzo.

“Grazie. I miei spaghetti aglio e olio, in effetti hanno successo. Modestamente.”

Ma è un piatto di una semplicità totale per vantarsene, non trova?

“Ma è proprio nella semplicità il valore della ristorazione. E poi, che è così semplice, lo dice lei. Se la gente, oltre lei, ricorda questo piatto cucinato da me, una ragione ci sarà. E sa qual è?”

L’aglio?

“No, la mantecatura. Prenda, ad esempio, la pasta al pomodoro: il segreto è che gli ultimi minuti di cottura vanno fatti nel sugo. Comunque, me la cavo anche con i secondi: la giusta cottura delle carni è un altro segreto della buona e genuina cucina.”

Le chiedo una cosa di natura commerciale. Ma quanto conta la qualità della pasta? I marchi hanno davvero un valore sul piatto o è solo frutto di pubblicità?

“Lei lo sa che alla ristorazione giunge una fornitura differente, privilegiata, che non è quella che si trova nei supermercati? In quella disponibilità si riscontra una buona qualità, a prescindere dai marchi.”

Spaghetto o maccherone? Cosa sceglie?

“Spaghetto, sempre. Poi dipende dal piatto. Se uso i tortiglioni devo abbinarli ad un sugo pieno, col ragù, altrimenti sono sprecati. Vedo che ha finito i dolcetti, ne vuole altri due?”

Molto volentieri, sono buonissimi!

“Mi sta facendo indirettamente un complimento: li ho fatto io. E il dolce non è mai stato nelle mie corde. Io faccio le pizze. Cucino. Il dolce è una cosa diversa. Eppure ho voluto sfidare me stesso: anzi, ho accettato la provocazione di un manager del locale: mi sono lanciato, e ne sono molto soddisfatto.”

Cos’è per lei, in definitiva, la cucina?

“Mi ha dato da vivere. E poi è sfida, coraggio, ambizione, passione. Ma solo se si mantiene un approccio semplice: generalmente, io guardo in casa ciò che ho, e dopo mi attrezzo per cucinare. Non il contrario.”

Lavora qui già da qualche tempo: com’è il Calicantus nel back stage?

“Questo è un locale prestigioso, accogliente, che predilige la genuinità dei profumi e dei sapori della tavola. Un ambiente autentico. Mi piacerebbe si possa dire: Vincenzo rispecchia il locale, vero e genuino com’è!”.

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