Una vita “nuova” per l’Ulisse di Joyce

L’inizio d’anno è stato per la letteratura un giorno magnifico. Sono, infatti, liberalizzati i diritti d’autore dell’Ulysses di James Joyce. Non a caso la Newton Compton è stata la prima casa editrice italiana a far uscire il capolavoro in nuova traduzione, approntata da Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi, con un linguaggio più vicino al parlato dublinese del tempo. L’attualizzazione che lo rende più “nostro contemporaneo” non scalfisce però la traduzione di Giulio De Angelis, punta di diamante di un pool di studiosi guidati da Giorgio Melchiori, per più di quarant’anni di riferimento, che, anzi, con la prossima uscita della versione, dopo un lavoro decennale, di Gianni Celati, verrà ad essere l’apripista di un confronto serrato e si spera foriero di novità tra modi di tradurre un romanzo di tale mole e contenuto. Questo fa sì che l’Ulisse non sia un romanzo bloccato nel suo tempo. Anzi, nel narrare l’umanità che Bloom incontra nelle sue peregrinazioni ci si accorge dell’universalità degli argomenti; dunque leggerlo oggi come un organismo vivente può consentire uno spostamento dell’azione nel tempo, con tutte le sue peculiarità e le odierne contraddizioni contemporanee. Infatti, il passaggio dalla letteratura alla scrittura e alla modernità d’espressione dati dai nuovi media consente di vestire cinematograficamente (nel più ampio uso del termine: uso del digitale, della fotografia, dei videofonini, del web, ecc.) l’oggettivazione temporale della città –

La copertina del libro di Joyce

Dublino, ma potrebbe essere Milano come Mosca – che di fatto colloca il romanzo in una zona civico-poetica contemporanea. Così il disfarsi del giorno assume i contorni della cronaca con il viaggio errabondo di Bloom (letto ora in soggettiva o in oggettiva). Tuttavia, a ben vedere, più che una vera e propria “storia”, Ulysses è un grande contenitore, nel quale entrano, ordinati secondo equilibri e ritmi precisi, situazioni molteplici e volti di personaggi diversi, riflessioni e stacchi lirici, nella fluidità di un tempo narrativo. Ciò che conta non è un evolversi di fatti, uno snodarsi di vicende, quanto l’incrociarsi continuo di impulsi vitali e guasti già vistosi, nel corpo di una società che gli “anni zero” del XXI secolo in un tentativo di attualizzare il capolavoro di James Joyce hanno già ampiamente modificato. Ed è l’altra faccia della medaglia dell’Ulysses: romanzo-monstre, vero e proprio monolite di cosa è stato il XX secolo. Uscito a Parigi il 2 febbraio del 1922, l’Ulisse in 90 anni di vita è riuscito a creare intorno a sé una vera e propria mitografia, anche turistica. Il 16 giugno, infatti, a Dublino e in altre parti del mondo – anche in Italia – si celebra il “Bloomsday”, dal cognome del protagonista Leopold e per rievocare gli eventi di quel giorno del 1904 (è il giorno in cui Joyce incontrò la futura moglie Nora Barnacle), chiuso fra le ore 8 del mattino e le 2 della notte. Come detto: imprescindibile lettura per chi vuol comprendere come un’idea di letteratura possa espandersi al cinema, all’arte, al teatro e possa dialogare anche con mezzi di comunicazione non ancora inventati quando il romanzo dello scrittore dublinese apparve. Ed è proprio tale cifra estetica di sommatoria di arti che consente di sbranare, nel senso più elegiaco del verbo, tutti gli episodi che lo compongono. Scelto: l’episodio VI detto Ade diventa simulacro di una discesa negli inferi da parte della coppia asimmetrica Bloom e di Dedalus. Insomma, l’ alto e il basso, il grasso e lo smilzo, il vecchio e il giovane, lo smart e il fool, il buddy-buddy del cinema comico americano o spostati in un futuro a noi già anteriore, i tanti Vladimiro ed Estragone che scompigliano da 60 anni i teatri del mondo. Tra discorsi, monologhi, confronti spesso serrati più da una prospettiva fisica (quanto conta per Joyce il linguaggio del corpo in prospettiva) prendono forma i fantasmi di Amleto come di altri episodi dell’Ulysses come lo straordinario ed estremo capitolo del romanzo – Penelope – noto anche come il monologo di Molly.

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