La poesia di Panetta, dialetto e modernità

Se è vero che la poesia in dialetto, molte volte quando non è lingua della nostalgia e della dissoluzione, è lingua a maggior tasso di concretezza e di tangibilità, in un stare più appresso alla fattualità del vivere e del narrare, è anche vero che tale poesia, se vuole «affrancarsi dal cliché di “poesia della rimembranza”» per manifestarsi in un attraversamento del moderno ed «essere più propositiva» deve guadagnare profondità, visione, pensiero ed astrazione. Inoltre deve porsi lingua fra le lingue, tradizione fra le tradizioni in una dimensione almeno europea. Concreta e tangibile è certamente la poesia di Alfredo Panetta di questo volume, nel per noi uso icastico del dialetto calabrese, poesia dell’io, fra cronaca e storia, fra omaggi e rimembranze ed impuntature gnomiche, una poesia di condizione e di presa sulla fattualità del mondo dell’azione e sulle sue tensioni morali e di costume, di modi di abitare il mondo. Un “nido nel fango” è la denuncia, anche di una condizione, oltre che di una dimensione costruttiva e ricostruttiva di una umanità continuamente da farsi e data nell’incompiutezza e nella indecidibilità. La poesia di Panetta ha la vocazione al poemetto, per tutte l’incipit di Nu cielu ‘i lamera: «È viva a lamera sulu quandu / ‘a tagghjia a ddu parti a forfici, / batti a forfici batti, anpena senti / scurriri ‘u sangu dint’è vini, / e a funtana chi mi vitti crisciri / mo’ à nu piruni ‘ terra arruggiatu […]» (È viva la lamiera quando / la taglia in due la forbice / pulsa la forbice pulsa, mentre / scorre il sangue nelle vene, / e la fontana che mi vide crescere / ora è uno stecco di terra arruginito).

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