AGRICOLTURA Le proteste e le opportunità dell’export

La lettera di Antonio Boselli

Caro direttore,

volevo condividere con Te e con i lettori alcune considerazioni sulla situazione della nostra agricoltura e sulle proteste in Italia e in altri paesi della comunità europea, con sfumature e richieste variegate. Quello che sta mettendo veramente in crisi le nostre aziende è il fatto di non riuscire a ricevere il giusto compenso per i nostri prodotti . Le politiche agricole europee e italiane hanno sempre usato i contributi e le agevolazioni sia per controbilanciare la concorrenza, in termini di prezzo, dei prodotti alimentari dei paesi extracomunitari (dove non valgono le nostre regole) , sia per cercare di mantenere i prezzi bassi al consumo, sostenendo nel

contempo la tenuta economica e sociale del comparto, costituito anche da aziende piccole o collocate in zone svantaggiate. Contributi e agevolazioni rappresentano una gabbia che ci tutela dal “mondo esterno”, ma se a un certo punto la gabbia viene tolta noi, difficilmente, siamo in grado di spiccare il volo e affrontare le sfide globali. Quello che manca per renderci forti nel volo è una vera strategia agricola (europea e italiana) che sappia portarci verso una agricoltura produttiva, rispettosa e rigenerante dell’ambiente. Avevo sperato che il Covid e la guerra in Ucraina avessero fatto capire l’importanza di avere in Europa un’agricoltura forte con provvedimenti volti a una sempre maggiore autosufficienza alimentare, ma non è stato così .

Di questa situazione non siamo esenti da colpe neanche noi agricoltori . Siamo troppo individualisti, facciamo fatica a costituirci in cooperative , organizzazioni di prodotto , per cercare di aggregare l’offerta, di fare direttamente trasformazione (per far rimanere più margine all’interno del comparto). Abbiamo filiere lunghe, con tanti passaggi , e fatichiamo a ragionare in un’ottica di processo, dal campo al consumatore. Vediamo l’anello successivo (industria di trasformazione e Gdo) come un avversario e non come un partner, perché la ripartizione del valore lungo la filiera ci vede nettamente perdenti.

Cementificazione delle aree di pianura e abbandono di aree economicamente non più valide (abbandonando la collina e la montagna a una boscaglia non produttiva) stanno condannando l’Italia a un declino della produzione agricola e di tutela di tanti territori difficili.

Gli agricoltori europei sono il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro, stretti tra una politica che fissa le regole, consumatori poco e spesso male informati su agricoltura e cibo, indotti a pensare che lo stiamo avvelenando, e un’economia che costringe gli agricoltori a produrre sì al meglio, ma al prezzo più basso possibile.

Le proteste sono soprattutto indirizzate verso le politiche europee; attenzione non si sta contestando in toto il green deal o il farm to fork, gli obiettivi di sostenibilità sono una strada da cui non si può tornare indietro. Si contestano i tempi e i mezzi per realizzare questo percorso, non è ammissibile una politica agricola fatta di divieti e diktat, senza valutare attentamente le conseguenze, in termini di una minore produttività e di una mancanza di valide alternative. Imporre in tempi brevi una drastica riduzione dei fitofarmaci e dei concimi , o lasciare terreni incolti , senza offrire valide soluzioni è il suicidio della agricoltura europea. La politica agricola comunitaria dovrebbe basarsi non tanto sui divieti, ma sui premi per chi lavora in maniera produttiva e sostenibile , per creare un circolo virtuoso , deve favorirel ’innovazione tecnologica e non chiudersi di fronte alle tecniche di selezione genetica che riuscirebbero, quelle sì, a migliorare le produzioni e a utilizzare sempre meno chimica e acqua, mettendoci in condizioni paritarie verso le agricolture degli altri paesi.

Ma anche la politica italiana non è esente da colpe, perché la burocrazia e le complicazioni nascono a Bruxelles, noi siamo abili ad amplificarle, e tutti ne hanno: stato , regioni , comuni ; si tratta di un carico che continua ad aumentare, ad appesantire sempre di più le imprese, a rendere la vita difficile all’economia reale. E poi dov’era la politica italiana, che oggi si straccia le vesti, ci dice “avete ragione , siamo al vostro fianco”, quando queste norme, che oggi sono contestate, venivano approvate con i voti dei nostri parlamentari? Devo spezzare una lancia per noi di Confagricoltura, che da subito avevamo cercato di mettere in guardia dalle conseguenze di queste normative, forse dovevamo essere già allora più incisivi. Noi agricoltori siamo preoccupati dalle importazioni da paesi dove non valgono le nostre stringenti normative , dove vengono usati prodotti fitosanitari da noi proibiti, dove viene sfruttata la manodopera, e siamo portati a chiuderci, a richiedere un ferreo rispetto del principio di reciprocità normativa verso questi paesi. Ma la globalizzazione rappresenta un’ottima possibilità di portare nel mondo le nostre eccellenze, come possiamo pensare di esportare e tutelare le nostre produzioni Dop se poi rifiutiamo di accettare i prodotti di questi paesi? Bisogna necessariamente stringere accordi, occorrono paletti certi dati dalla politica, ridare forza al WTO (Organizzazione mondiale del commercio), perché più allarghiamo questi trattati e più le stesse regole saranno nel tempo condivise dai vari stati. Anche il trattato con il Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay) di cui si discute in questi giorni, va certamente migliorato, ma riuscire a portarlo a conclusione rappresenterebbe un bel passo in avanti per il nostro export, come insegna il Ceta, il trattato siglato con il Canada.

Noi agricoltori siamo pronti a fare la nostra parte per una agricoltura più produttiva e sostenibile (come propugnato dalla Fao) , e vogliamo essere messi nelle giuste condizioni per proseguire questo percorso.

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