Taverne e ristoranti nella Lodi che fu...

LA CUCINA DELL’ANIMA Il curioso viaggio con Bruno Balti dell’Accademia Italiana della Cucina di Lodi

Conosco da poco Bruno Balti, e l’ho incontrato grazie a questa pagina di Cibo & Pensieri, essendo lui delegato dell’Accademia Italiana della Cucina di Lodi. Mi è capitato di incontrarlo tre volte, e ne ho ricavato sempre la stessa impressione: uno a cui pesa la notorietà, legata ai suoi impegni accademici ed enogastronomici, e che affronta le cose con un misto di ruvidezza e al tempo stesso di savoir faire. E che sa soppesare tutto ciò che entra nella sua vita: un uomo che appare costantemente distratto, come fosse perennemente sovrappensiero, e invece molto concreto e asciutto.

Bruno, da lodigiano oggi ti faccio dare i voti alla ristorazione del territorio…

«In realtà, sono nato a Milano, ma credo di essermi guadagnato la cittadinanza lodigiana, il mio cuore è qui, dove sono arrivato quando avevo sette anni».

Conosci il Lodigiano come pochi altri, anche in relazione alla buona tavola dei ristoranti.

«Da quando ho cominciato a frequentarli, ero ragazzo e accompagnavo mio padre Melchiorre, che per l’attività che svolgeva aveva sempre contatti con diversi suoi clienti, sono cambiate tante cose, compresa la città di Lodi. L’unico ristorante che ha resistito è quello dell’Isola Caprera: il signor Meani era molto attento a valorizzare le eccellenze del territorio».

E i locali invece che hanno chiuso i battenti, quali sono?

«C’erano il ristorante Anelli e il Tram, e quello di Nicla Tanelli, la regina dei risotti; la Quinta, alle origini in piazza e poi nel quartiere san Fereolo; i Tre Gigli all’Incoronata, primo ristorante stellato di Lodi e l’indimenticabile Leon D’Oro di Maleo. Poi c’era anche l’osteria la Casotta, sulla strada per Boffalora d’Adda, un posto rustico, frequentato da pescatori, ne ho un ricordo persino romantico».

In che senso romantico?

«Mio padre, quando voleva rilassarsi, andava lì e mi portava con lui; mangiavamo una grande quantità di pesciolini, ed io osservavo con curiosità gli avventori: c’erano sempre almeno un paio di ubriachi, ma non facevano paura, anzi erano divertenti, ballavano e cantavano ascoltando le note di un jukebox; era proprio un ambiente che andava in dissolvenza, talvolta entrava l’uomo col tabarro, c’erano fuori i carri ed i cavalli, e il loro sterco era un bene prezioso da portare sulla terra dei vasi di gerani».

Capisco perché hai usato quel termine.

«Tutta Lodi era diversa, in verità. Alla domenica c’era in piazza della Vittoria il mercato agricolo, poi i contadini si riversavano nelle osterie, compresa quella oggi denominata da Ilde, in via Castelfidardo. Anche qui c’era un cliente fisso, che finiva sempre ubriaco: veniva a recuperarlo il fratello e lo riportava in cascina».

Quindi la buona cucina tu l’hai scoperta nei ristoranti di una volta.

«Esattamente. Sulle tavole arrivava un cibo genuino, ad esempio l’immancabile granone lodigiano, irrimediabilmente scomparso all’inizio degli anni ’70, e sempre ricoperto da uno straccio umido per garantirne la consistenza. Gli antipasti venivano serviti al carrello - s’usava così -, e c’erano il tonno con le cipolle, le sardine, andava forte pure la trota in bella vista, un piatto must erano le pappardelle alla lepre».

Cos’altro si mangiava come cliché?

«Negli anni Sessanta, tortellini alla panna, roast beef, profiterol».

All’Accademia sei arrivato per meriti di… buon palato?

«Ho sempre desiderato appartenere ad una congrega del cibo: non so, del tartufo, piuttosto che del bollito. All’Accademia Italiana della Cucina, che è l’unica istituzione della Repubblica di tale tipo, arrivai una ventina d’anni fa, tramite mio cognato, il compianto avvocato Gianfranco Del Monte: fu lui a presentarmi all’avvocato Maisano perché in questo sodalizio si entra esclusivamente per inviti».

Era come te l’aspettavi l’Accademia?

«Rimasi immediatamente colpito della dimensione internazionale e dall’efficacia della gestione. Mi è piaciuto il fatto che si approfondisse con rigore e competenza la cucina territoriale: ogni delegazione è agganciata al suo specifico territorio e lo tiene monitorato sotto gli aspetti enogastronomici. Ma anche il fatto di maturare nuove conoscenze, con persone che avevano i miei stessi interessi mi ha molto coinvolto».

Il Lodigiano, in fatto di cucina, non credi sia sottovalutato?

«È un discorso lungo. Ci sono locali storici che chiudono, e che difficilmente riapriranno i battenti. Le osterie sono quasi del tutto sparite. Poi c’è stata la moda della nouvelle cuisine e della cucina gourmet, che in molti casi esprime piatti senza significato. La vera differenza la fanno la qualità degli ingredienti e i metodi di lavorazione».

Su cosa si dovrebbe puntare per un rilancio?

«Intendiamoci: fare un buon risotto a te sembra banale? Io credo che quelli di un certo tipo vadano salvaguardati: ad esempio, il risotto ai fegatini con fondo bianco o giallo; oppure con la salsiccia, magari con i chiodini o il riso in cagnone, cioè con i chicchi lessati, non mantecati, e la salvia che friggendo in abbondante burro crea delle briciole scure che attaccandosi al chicco di riso lo fanno assomigliare a un “cagnotto”. Naturalmente è necessaria una bella spolverata di grana stagionato».

Altri punti di forza?

«La trippa. Io non capisco come a Lodi e dintorni la si mangi solo nel giorno di san Bassiano o limitandola in quel periodo. Altro punto di forza lo attribuirei ai nostri brasati. Inoltre sono scomparsi il fagiano con la panna e la faraona con il mascarpone. Sono convinto che, davvero, non sappiamo valorizzare ciò che produciamo».

Un esempio su tutti di questa scarsa propensione?

«La tortionata. Chi non la conosce, quando se la trova davanti, pensa sia uguale alla sbrisolona. Poi la mangia e comprende che ha una propria specificità, e la trova buonissima. Fuori da Lodi, però, non la conosce nessuno. Un altro esempio? La raspadura! Puoi anche promuoverla fuori dal territorio, ma se attorno non costruisci un progetto per farne capire la bontà nessuno sarà interessato a prenderla. Sai da chi si dovrebbe prendere esempio?».

Dimmi.

«Dai produttori di vino di San Colombano al Lambro. La qualità delle produzioni è stata a lungo altalenante, ma adesso si è positivamente stabilizzata. Oltre a curare le viti locali, si sono addentrati nelle coltivazioni di uve diverse, di matrice internazionale. Questa realtà ha guardato a Milano ed ha avuto successo, perché ha realizzato mercato».

Ci sono prodotti rispetto ai quali si sta facendo una vera e propria opera di riscoperta e valorizzazione.

«Sì, ne sono informato: so che è un progetto, ad esempio, si sta facendo sulla rapa bianca. Io ricordo i ravin, sottaceti che derivavano appunto dalla rapa bianca. È interessante riprendere alcuni prodotti, scomparsi per ordine economico o superati da innovazioni e cambiamenti climatici. Però questo salvataggio ha un senso se il prodotto è buono e se ha un buon sapore».

Facciamo finta che dobbiamo consigliare un turista: dove lo mandiamo a mangiare? Puoi indicare solo tre locali.

«Ce ne sono di validi, non posso indicarne solo tre!».

Non possiamo fare altrimenti: ragioni di spazio per la pagina.

«Mi farei odiare da tanti! A Lodi, direi La Coldana dello chef stellato Alessandro Proietti Refrigeri: si mangia benissimo, non riesco a muovergli una critica, rasenta la perfezione. Sempre in città, Da Ilde: Diego ed Elena cucinano in modo moderno e la qualità è ottima. Ho apprezzato la Gadainera di Santo Stefano Lodigiano: lo chef, Francesco Zazzi, è molto bravo. E, per concludere, il Sole di Maleo mantiene il suo fascino, e l’Arsenale di Cavenago d’Adda, che si sta affermando suscitando ampi consensi».

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