Medioriente instabile, un rischio per gli Stati Uniti

Interrompiamo le reazioni a catena dell’odio: perderemo tutti

Negli anni cavallo del millennio il dibattito sul futuro mondiale si era polarizzato attorno a due tesi: la “fine della storia” prevista da Fukuyama e lo “scontro delle civiltà” prefigurato da Huntington. Per la prima, estinto l’agone tra gli unici due modelli universalizzabili, quello sopravvivente (liberal-demo-capitalista) avrebbe ipotecato il domani globale; per la seconda, tolto il freno bipolare, sarebbero riesplose le contese tra blocchi geoculturali, radicalizzate dalle incompatibilità svelate dai contatti globalizzati e infuocate lungo le linee di faglia.Dopo la stagione della lotta all’internazionale jihadista, il pendolo tra le due previsioni torna a bloccarsi sulla seconda. Non solo per la falsa partenza dell’escatologia unipolare. Oggi si blocca per il clima che si propaga da Gaza, dove l’esercito israeliano, pur con la cautela di evitare la parola “invasione”, ha avviato le operazioni di terra. Sui media e non solo si invoca la guerra santa coranica, si vota allo sterminio con metafore bibliche, si recuperano profezie messianiche: “luce contro tenebre”, “con noi o contro di noi”, e a chi parla di pace si chiede di fare pubblica ammenda.Ma la divisione è pianta dalle radici ingovernabili. Sicché mentre in Daghestan si apre la caccia all’ebreo e Tripoli allontana le diplomazie occidentali minacciando di chiudere gas e petrolio, le spaccature affliggono anche le istituzioni israeliane. Il premier accusa gli apparati di sicurezza, si dimettono ministri, nei vertici militari c’è chi dissente su una guerra urbana che, nel mozzare le teste dell’idra, le vede ricrescere e moltiplicarsi altrove. E a quanti investono sulla cifra etnico-confessionale di Israele come Stato ebraico, altri ricordano i rammarichi di Rabin sui favori concessi ad Hamas per squalificare la causa palestinese guidata dall’Olp del laico Arafat.

Probabilmente nessun capo di governo verrà incriminato dalla Corte penale internazionale, poco o nulla potrà l’Onu delegittimata. Ma Washington sa di essere sotto lo scacco del chain-ganging, che impedisce di districarsi dalle catene di un alleato che trascina nel precipizio. Per questo il Pentagono aveva proposto di sfogare la furia contro Hezbollah, alleggerendo la pressione su Gaza, derubricata a rappresaglia dimostrativa. Per questo Biden frena, al punto di ammettere gli errori dopo l’11 Settembre pur di convincere Tel Aviv a moderarsi. Nel sottotesto c’è l’invito a sottrarsi alla trappola studiata da Hamas per riportare la questione palestinese sotto i riflettori e spingere Israele al passo falso di una guerra allargata: troppo insidiosa per gli Usa, su cui pesano l’impegno anticinese e gli errori di calcolo in Ucraina. Ma c’è anche l’intento di preservare Washington da un ulteriore vulnus alla credibilità di chi si candida a guida responsabile della sicurezza globale e dei diritti di tutti i popoli. Il registro persuasivo mostra la Casa Bianca non più in condizione di esigere obbedienza, tanto più in un frangente complicato sul versante interno in vista delle elezioni, con una presidenza stretta tra la sinistra dem - che da anni denuncia i crimini genocidari del governo israeliano - e il mordente repubblicano di cui è nuova icona Johnson, neoeletto speaker che insediandosi alla Camera dichiara il dovere di sostenere Israele nella lotta ai regimi che contrastano il faro statunitense: nazione eccezionale, la più potente della storia in virtù del mandato divino di promuovere libertà, benessere e pace con la forza.

Ma sotto scacco sono anche i governi islamici non ostili a Washington. Giacché Netanyahu non vuole accomiatarsi dalla politica con un gesto arrendevole, fanno i conti con il rischio che l’Iran si accrediti nel mondo arabo come protagonista regionale. Lo sanno il Qatar, che preme per mediare sugli ostaggi; l’Arabia Saudita, che abbatte i razzi sciiti lanciati dallo Yemen; la Giordania, che cerca di ammansire la radicalizzazione di una società per metà di origine palestinese. Mentre la Turchia (che, come l’Iran, araba non è), per non lasciare campo libero a Teheran, dimentica i legami con Israele e ostenta panislamismo giustificando Hamas e denunciando le responsabilità dell’Occidente. Resta l’incognita Hezbollah. Nel 2006 costrinse le forze di Tel Aviv a svuotare in 10 giorni il Reserve Stock Allies statunitense e oggi è vieppiù minaccioso, dato che incapsula il nord di Israele dal Libano (dov’è popolare per il welfare con cui surroga le istituzioni al collasso) alla Siria (in cui si è acquartierato in soccorso di Assad).

Eppure lo scenario non impedisce la disinvoltura di certe progettualità. Già a luglio i ministri dell’ultradestra sionista confessionale, violando gli Accordi di Oslo, hanno riservato agli insediamenti ebraici nuove aree in Cisgiordania. Ma è in queste ore che l’Institute for Zionist Strategies rilancia il suo Regional Settlement: spingere i palestinesi a darsi uno Stato nel Sinai, coinvolgendo i capitali sauditi sia per urbanizzare l’enclave, sia per fare di Gaza evacuata un polo turistico, con l’opportunità di sfruttare i giacimenti di gas prospicienti la costa. Tutto facendo leva sul debito dell’Egitto a rischio insolvenza, da sottrarre all’orbita cinese grazie ai prestiti che il Fmi potrebbe concedere condizionandoli al piano in parola. Non servono sforzi per prevedere il battesimo nell’odio di uno Stato di profughi sradicati dalla devastazione e ospitati obtorto collo.

Nel disorientamento del buon senso, lo “scontro delle civiltà” pare l’unica certezza. Ma già Huntington avvertiva che esso non è un destino ineluttabile: per evitarlo servono prove di coerenza e lungimiranza, all’incrocio tra strategia e morale che interrompe le reazioni a catena dove tutti si scoprono perdenti.

* Pontificia Università Lateranense

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