La scelta netta della Germania e i raduni dei nostri neofascisti

«Una società tollerante, se vuole sopravvivere, non può tollerare l’intolleranza»

La foto ha fatto il giro di tutti i giornali. Una piazza gremita, decine di braccia tese nel saluto romano, volti impassibili ed orgogliosi. Settimana scorsa a Milano si commemorava Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, ucciso nel 1975 da esponenti della sinistra extraparlamentare. Ogni anno, in suo nome, si svolgono raduni sempre più partecipati, sempre più espliciti, sempre più inquietanti. E quest’anno, a Roma come a Milano e a Lodi (questo giornale ne ha dato notizia) l’evento è divenuto un simbolo evidente: l’iconografia fascista non è più soltanto un riflesso del passato, ma un segnale d’allarme del presente.

Contemporaneamente, in Germania, un altro evento ha fatto notizia: l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione ha formalmente classificato il partito AfD (Alternative für Deutschland) come forza di estrema destra. Una decisione fondata su indagini approfondite, che hanno evidenziato tratti ideologici, linguistici e programmatici incompatibili con i principi democratici. La Germania, con la sua storia drammatica, ha scelto di tracciare una linea netta: oltre certi limiti, la libertà d’espressione non è più uno strumento della democrazia, ma un’arma contro di essa.

Questi due episodi, accaduti a poche ore di distanza, pongono una domanda centrale per ogni sistema liberale: fino a che punto la democrazia può - e deve - tollerare chi ne contesta i fondamenti? (E vale anche per certe manifestazioni della sinistra estrema). È sufficiente affidarsi alla forza del dibattito pubblico, al pluralismo e alla trasparenza? Oppure occorre porre dei confini invalicabili, limiti che non possono essere oltrepassati, nemmeno in nome della libertà di parola?

Nel suo celebre “Paradosso della tolleranza”, il filosofo Karl Popper affrontava proprio questo nodo cruciale. Una società tollerante, scriveva Popper, se vuole sopravvivere, non può tollerare l’intolleranza. Perché la tolleranza illimitata conduce, inevitabilmente, alla scomparsa della tolleranza stessa. Concedere spazio illimitato a movimenti e ideologie che mirano a sovvertire l’ordine democratico, a negare i diritti altrui, a imporre autoritarismo e violenza, significa minare le fondamenta della convivenza civile.

Non si tratta di censura, ma di difesa. La democrazia non è debole quando si protegge: essa è semplicemente consapevole di se stessa. È giusto che la memoria sia coltivata, anche nelle sue pagine più divisive. Ma quando la memoria diventa apologia, quando il lutto si trasforma in militanza eversiva, allora lo Stato deve reagire. Non con repressione cieca, ma con strumenti di legge, con educazione civica e con fermezza istituzionale.

L’Italia, a differenza della Germania, ha una Costituzione antifascista, ma troppo spesso dimentica di averla. Le immagini delle braccia tese non sono folklore: sono la negazione dei valori repubblicani. E chi, oggi, siede nei palazzi del potere, dovrebbe interrogarsi profondamente sul significato di queste derive. Non è sufficiente condannare a parole: servono atti, normative, scelte coraggiose.

Perché la democrazia non è un bene acquisito per sempre. È un equilibrio fragile, che si mantiene vivo solo se chi la abita ha il coraggio di proteggerla. Anche - e soprattutto - da chi, sotto la maschera della libertà, sogna il ritorno dell’autoritarismo.

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