
Editoriali
Mercoledì 21 Maggio 2025
La diplomazia del Vaticano nelle crisi internazionali
HISTORIA L’analisi di Matteo Simighini
Matteo Simighini
La Santa Sede ha spesso esercitato un importante ruolo diplomatico nella risoluzione dei conflitti, costruendo inediti canali di dialogo e contribuendo a collaudare innovativi meccanismi di arbitrato e di mediazione su scala globale. In età contemporanea, uno dei principali fautori del dialogo fra le nazioni è stato Papa Leone XIII. Egli, nel tentativo di venire a capo della “Questione romana”, lo scontro che si era innescato fra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio dopo l’annessione di Roma (1870), accettò di buon grado l’invito di partecipare alla conferenza di pace dell’Aia del 1899. C’era bisogno di riaffermare la statualità della Santa Sede a livello internazionale e tale occasione si mostrava propizia. Tuttavia altre nazioni - il Regno d’Italia in testa - si dimostrarono alquanto insofferenti all’eventuale presenza della delegazione pontificia. Alla fine, pur non avendo partecipato direttamente alla conferenza di pace, nondimeno venne ribadita l’importanza del ruolo super partes della Santa Sede nel dirimere le controversie globali. A tal proposito, lo stesso Leone XIII si pronunciò sull’urgenza di istituire «un sistema di mezzi morali e legali per stabilire e salvaguardare i diritti di ognuno, giacché non esiste un’alternativa al ricorso immediato e diretto all’uso della forza». Risolvere pacificamente i conflitti è sempre stata una priorità per gli organi diplomatici dello Stato Pontificio, che a tal scopo contribuirono all’evoluzione di un sistema legale mondiale. E, in effetti, al termine della conferenza di pace dell’Aia nacque la Corte permanente di arbitrato (CPA), un tribunale internazionale che si occupa di risolvere pacificamente le dispute fra gli stati che ne fanno parte – ad oggi 124.
I successori di Leone XIII seguirono il suo esempio.
Benedetto XV condannò sempre con grande severità le violenze della Prima Guerra Mondiale, che definì «l’inutile strage», e si impegnò in prima persona nella creazione della Società delle Nazioni, al netto dell’inconsistenza che avrebbe poi rivelato tale organizzazione. Giovanni XXIII ribadì la ferma condanna alla guerra e l’urgenza di costituire più efficaci organismi di pace nell’enciclica Pacem in terris (1963), in cui constatò con amarezza che «sul terreno storico è venuta meno la rispondenza fra l’attuale organizzazione dell’autorità pubblica operante su piano mondiale e le esigenze obiettive del bene comune universale».
Poco più tardi, anche Paolo VI nella Populorum progressio (1967) rinnovò il suo pieno sostegno all’ONU, in nome di un «ordine giuridico universalmente riconosciuto». E proprio davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a New York, a poco meno di un anno dalla sua elezione, intervenne Giovanni Paolo II, ricordando ancora una volta che tale organizzazione «unisce e associa, e non già divide e contrappone: cerca le vie dell’intesa e della pacifica collaborazione, tendendo con i mezzi disponibili i metodi possibili ad escludere la guerra, la divisione, la reciproca distruzione in quella grande famiglia, che è l’umanità contemporanea». Un ulteriore sostegno da parte della Santa Sede al mandato dell’ONU, che manifesta, come ribadirà qualche anno dopo lo stesso Wojtyla, «quanto grande sia il desiderio della Chiesa cattolica di sostenere gli sforzi di questi organismi internazionali». Non ultimo, Francesco, che nel 2014 aprì i giardini vaticani a Shimon Peres, allora presidente israeliano, e a Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese, per un incontro di preghiera, un dialogo congiunto fra le tre grandi religioni monoteistiche.
Pochi giorni fa l’invito alle delegazioni di Russia e Ucraina da parte del Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, di beneficiare della Santa Sede come teatro neutrale per le prossime, auspicate, trattative di pace è stato il primo, tangibile, appoggio a una «diplomazia dell’incontro, per promuovere la pace e la giustizia, spesso di fronte a grandi complessità».
Alla base della Chiesa, ha affermato Leone XIV, deve esserci l’unità, la convivenza nelle diversità: entrambi presupposti di pace. Analogamente, come ha detto Henry Kissinger, «la diplomazia è la gestione degli interessi comuni attraverso il dialogo e il compromesso, con l’obiettivo di trovare una soluzione che sia accettabile per tutte le parti».
Non sopraffare, ma mediare; non annichilire la controparte, ma includerla in un dialogo universalmente costruttivo. Solo così si realizzerà «quell’unita che non annulla le differenze»; tema, quest’ultimo, peraltro già affrontato da Leone XIII nella Rerum novarum (1891).
La difesa e l’amore della pace sia l’imperativo categorico che ispiri ogni nuova iniziativa diplomatica, giacché, come ricordava Agostino, il santo tanto caro al Pontefice, «i confini della pace si allargano quanto più cresce il numero di coloro che la posseggono».
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