Il presidenzialismo di Meloni e gli ostacoli sul suo percorso

Il commento di Paolo Pissavino

Venerdì scorso il Consiglio dei ministri, su proposta del presidente Giorgia Meloni e del ministro per le Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha approvato un disegno di legge costituzionale per introdurre “un meccanismo di legittimazione democratica diretta del presidente del Consiglio dei ministri, eletto a suffragio universale con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere, mediante una medesima scheda”.

Al fine di rafforzare la stabilità del nostro sistema politico, il disegno di legge prevede, quindi, la formazione di un governo di legislatura, sicché se il premier si dimettesse, il Quirinale potrebbe incaricare un parlamentare a lui collegato, così da impedire i cosiddetti “ribaltoni” o la costituzione di governi “tecnici” o “del presidente della Repubblica”, in cui il presidente del Consiglio, insomma, non sia espressione della volontà popolare, bensì il risultato delle odiatissime, dal centrodestra, “manovre di palazzo”. E in effetti, dal 2011 al 2022 a Palazzo Chigi si sono succeduti sette governi con sei presidenti (Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi), nessuno dei quali era stato indicato direttamente da elezioni politiche: “Inquilini, provvisori abitanti del potere”, come, con formula felice, li ha definiti Lucia Annunziata nel suo volume «L’inquilino. Da Monti a Meloni: indagine sulla crisi del sistema politico» (Feltrinelli, Milano 2022).

Tuttavia, vale osservare come non sia certo la prima volta che il centrodestra tenti la strada della riforma della Costituzione. Non va dimenticato, infatti, che durante il terzo governo Berlusconi (23 aprile 2005 -17 maggio 2006) venne approntato un complesso disegno di legge: Modifiche alla Parte II della Costituzione (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 novembre 2005), approvato con i soli voti del centrodestra, che esplicitava uno dei temi più sentiti da Berlusconi, ovvero la necessità che al governo, e in particolare al presidente del Consiglio dei ministri, fossero attribuiti maggiori poteri. Per il vero, il desiderio berlusconiano di individuare le condizioni normative che potessero garantire al governo eletto dai cittadini di restare in carica per l’intera legislatura, riprendeva la silohuette di una riflessione, che aveva animato, ad opera del “Gruppo di Milano”, la cultura politica italiana degli anni Ottanta. Tra le proposte più importanti avanzate da quel pool di professori, coordinati da Gianfranco Miglio, vi era la fine del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un Senato delle Regioni, oltre che, appunto, il governo di legislatura. Invero, il Cavaliere sognò sempre di guidare un esecutivo che potesse scavalcare agevolmente freni e dispositivi istituzionali previsti dalla nostra attuale Carta. A testimoniare la sua (scarsa) sensibilità nei confronti dell’architettura delle nostre istituzioni, basta richiamare il discorso tenuto il 10 aprile 2010 al Forum di Confindustria svoltosi a Parma, in occasione della celebrazione del centenario dell’Associazione, in cui per ben tre volte ribadì il fatto che “L’esecutivo non ha nella nostra costituzione nessun potere”. Leit motiv della retorica di Berlusconi, la critica alla debolezza dell’esecutivo e, conseguentemente, la necessità di procedere al suo rafforzamento, per il vero, era già stato tema centrale nel suo discorso tenuto alla Camera dei Deputati il 2 agosto 1995: “Nella mia esperienza di governo ho potuto direttamente constatare […] la grave mancanza di efficaci strumenti a disposizione dell’esecutivo” (discorso riportato, con il titolo “Dobbiamo decidere per un grande cambiamento, per una grande riforma”, in «Discorsi per la democrazia. Gli interventi parlamentari di Silvio Berlusconi», Mondadori, Milano 2001).

Come è noto, il progetto di riforma costituzionale presentato dal centrodestra nel 2005, che impattava su ben 53 articoli, venne bocciato dal referendum confermativo del giugno 2006.

Al contrario, l’attuale disegno di legge (di soli 5 articoli) ubbidisce invece, come recita il comunicato stampa rilasciato da Palazzo Chigi, “a un criterio minimale di modifica della Costituzione vigente, in modo [...] da preservare al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica, figura chiave dell’unità nazionale”. In effetti, questo progetto appare ben lontano dal presidenzialismo a suo tempo sbandierato dalla Meloni, mentre al Capo dello Stato vengono tolte solo due prerogative: la nomina del presidente del Consiglio e quella dei senatori a vita “per altissimi meriti”. Tuttavia, credo resti lecito chiedersi se al progetto avanzato dall’attuale esecutivo non possa toccare la stessa sorte a cui andò incontro quello del 2005, visto che potrà contare, allo stato attuale dei fatti, solo sul sostegno della maggioranza e forse di Matteo Renzi e della sua Italia Viva.

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