Il “gran rifiuto” di Celestino V, non viltà ma responsabilità

Il 5 luglio 1294, dopo un travagliato conclave durato più di due anni, il monaco abruzzese Pietro da Morrone fu eletto papa e assunse il nome di Celestino V.Questo esito aveva molte implicazioni politiche. Il conclave, in effetti, era stato paralizzato dalle divisioni fra la fazione filofrancese, vicina alla famiglia Colonna, e quella antifrancese, sostenuta dagli Orsini. L’Italia del Nord era molto instabile, a causa delle lotte fra i Comuni; Roma, in assenza di un nuovo pontefice, era senza una guida; il Mezzogiorno era teatro di continui scontri fra gli angioini, famiglia di origine francese che governava nella parte continentale, e gli aragonesi, dinastia di provenienza spagnola che amministrava la Sicilia.

Carlo II d’Angiò, re di Napoli, aveva grande interesse a condizionare l’elezione per rafforzare il controllo angioino sul Mezzogiorno e sulla Curia romana. In linea con le sue ambizioni, l’eremita Pietro era il candidato perfetto: docile, ormai anziano, non parteggiava per alcuna fazione. Avrebbe lasciato ampia libertà di manovra ai cardinali. Il suo sarebbe stato un pontificato di transizione; nel frattempo gli Orsini e i Colonna avrebbero potuto affilare i coltelli in attesa di un nuovo scontro. E così il 5 luglio 1294, a Perugia, dove il conclave era riunito, l’eremita Pietro fu eletto all’unanimità.

Papa Celestino V assunse con riluttanza il nuovo ruolo. Non si recò a Roma, ma venne incoronato a L’Aquila, sotto la stretta protezione del re Carlo II d’Angiò. La sua inesperienza politica e l’ingombrante presenza degli angioini lo portarono rapidamente allo sfinimento. Egli era diventato un ostaggio di Carlo II, che gli affiancò consiglieri della sua corte, che lo costrinse perfino a risiedere a Napoli, e non a Roma, così da controllarlo più da vicino. Pietro, che da sessant’anni viveva come eremita, del tutto estraneo ai giochi di potere nei quali, suo malgrado, era stato coinvolto, sentì ben presto il gravoso onere del suo incarico e, avendo ormai chiari i veri motivi della sua elezione, decise clamorosamente di abdicare il 13 dicembre 1294. In realtà, ad aiutarlo a intraprendere questa scelta ci pensò, con i suoi consigli tutt’altro che disinteressati, il cardinale Benedetto Caetani, il quale promulgò per lui un decreto che riconosceva il diritto di un papa a dimettersi, aprendo un precedente unico nella storia della Chiesa. Fu poi proprio il cardinale Caetani a essere eletto successore di Celestino V, assumendo il nome di Bonifacio VIII. Nella bolla Olim Celestinus il nuovo papa riconobbe valide le dimissioni del suo predecessore. Il papa emerito avrebbe voluto a questo punto ritornare alla vita monastica, ma Bonifacio VIII non glielo permise, temendo che i suoi oppositori, i Colonna, potessero riconoscerlo come antipapa. Fu rinchiuso nella Rocca di Fumone, nel frusinate, ove morì due anni dopo, nel 1296.

Celestino V fu una vittima del gioco politico. Bonifacio VIII, invece, era di tutt’altra pasta: egli dominava la scena politica. Perseguitò la famiglia Colonna, che non ne aveva riconosciuto la legittima elezione papale, ordinando numerosi espropri ai loro danni, costringendoli a cercare rifugio in Francia. Roma fu così ostaggio delle violenze per molti mesi. Il papato di Bonifacio VIII fu corrotto e il pontefice fu condannato da Dante alla dannazione eterna nell’Inferno. Il poeta attacca la cupidigia del pontificato di Bonifacio VIII, paragonandola a quella di una meretrice: «Di voi pastor s’accorse il Vangelista, /quando colei che siede sopra l’acque /puttaneggiar coi regi a lui fu vista.» (If., Xix, 106–108). Anche di Celestino V Dante non ebbe gran stima, spedendo la sua anima all’Antinferno, tra gli ignavi, le anime che «non presero mai parte», che «per viltà» cioè, si astennero dal prendere importanti scelte in campo morale. La loro punizione è il contrappasso, ovvero una pena che riflette la loro colpa: corrono senza sosta dietro a un’insegna senza significato, tormentati da vespe e mosconi, che li pungono e fanno colare il loro sangue. In effetti, Celestino V, colui che «per viltà fece il gran rifiuto», pur avendo la possibilità di imprimere un necessario cambiamento alle politiche ecclesiastiche, non ebbe la forza di farlo.

Tuttavia, le dimissioni di Celestino V non vanno lette come un atto di viltà, bensì di grande responsabilità. Egli riconobbe l’urgenza di riformare la Chiesa dall’interno, ma capì pure che era impossibile procedere in tale direzione senza i necessari appoggi politici. Papa Francesco lo citò come «testimone coraggioso del Vangelo, perché nessuna logica di potere lo ha potuto imprigionare e gestire». Prima ancora, Benedetto XVI, che come Celestino V ha scelto di abdicare, ne riconobbe l’unicità storica e lo descrisse come figura che «riesce a percepire la voce di Dio nel silenzio» e che scelse la rinuncia per fedeltà al Vangelo. A volte rinunciare è un atto di immenso coraggio, e non di viltà.

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