Don Milani ci ha insegnato l’uso consapevole della parola

di Marco Zanoncelli

Enzo Biagi scrisse che l’Italia nel dopo guerra ebbe tre veri “rivoluzionari” e furono tutti e tre preti: don Zeno, don Milani e don Mazzolari. Di don Lorenzo Milani ricorre quest’anno il centenario della nascita che avvenne a Firenze il 27 maggio del 1923. Prete scomodo, decisamente incompreso dalla sua generazione e dalla sua Chiesa, fu una voce profetica di quegli anni, voce che scosse la coscienza non solo religiosa ma anche civica e politica dell’Italia del dopoguerra. Relegato per punizione nella minuscola e sconosciuta frazione di Barbiana, nel Mugello, diede vita ad una delle più straordinarie esperienze educative dei tempi recenti, ad una scuola sui generis nella quale il priore ed i suoi ragazzi erano impegnati in un percorso di istruzione e di apprendimento a tutto tondo. Fuori dalle rigide regole della didattica del tempo, in un legame che divenne condivisione della vita, don Lorenzo seppe sperimentare una pedagogia innovativa che faceva del celeberrimo “I care” (mi interessa, mi importa) il fulcro nevralgico del suo metodo.

Della poliedrica e grandiosa lezione di don Lorenzo c’è un elemento che mi pare getti una luce particolare sulla nostra esperienza educativa, un tratto di quella vicenda che, benché forse irripetibile oggi, rappresenta un lascito prezioso per chiunque lavori con le nuove generazioni. La scuola di don Lorenzo è una scuola della emancipazione dei poveri, del riscatto degli ultimi, della umanizzazione degli oppressi e tutto questo è reso possibile da un preciso fattore abilitante: l’uso consapevole della parola. È il linguaggio la vera arma attraverso cui gli sconfitti della storia possono ambire alla propria rivincita, per rivendicare quel ruolo sociale e politico che la società ha negato loro. In una lettera del 1956 scrive: «Cosa è che divide i ricchi dai poveri? Ciò che manca ai miei è (…) il dominio della parola».

Nella famosa Lettera a una professoressa, i ragazzi di Barbiana scrivono: «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli».

È nell’utilizzo della parola che don Lorenzo individua il vero principio di umanizzazione e di individuazione: si diventa uomini perché si è in grado di leggere e di comprendere, di esprimere il proprio pensiero, di argomentare una riflessione, di dire sé stessi e accogliere la parola degli altri. “Il padrone sa 1000 parole, tu ne sai 100; ecco perché lui è il padrone” scrive don Lorenzo ad uno dei suoi giovani. È il nostro vocabolario che fa di noi persone libere, autonome e responsabili.

Oggi fortunatamente non dobbiamo più affrontare un analfabetismo diffuso come ai tempi del primo dopoguerra: l’istruzione pubblica ha colmato un gap culturale che negli anni di don Milani era drammatico. Tuttavia, la provocazione del Priore di Barbiana suona come un appello attuale, sia in relazione alle nuove forme di povertà linguistica (non solo legata ai “nuovi poveri” del terzo millennio, i migranti, ma anche a quel forte analfabetismo di ritorno che le statistiche ci restituiscono) sia in relazione alle nuove generazioni che, abilissime nell’uso delle nuove tecnologie, rischiano oggi di essere fragili ed esposte, perché povere di parole, di pensieri e di riflessione.

Chiunque lavora in qualche modo con le nuove generazioni conosce bene l’urgenza di “donare parole” ai giovani, parole con cui possano leggere la loro vita e il loro mondo interiore, parole per comprendere la complessità del mondo in cui vivono, parole per costruire il loro futuro con consapevolezza e responsabilità, parole per dire sé stessi con autenticità e verità.

Mi interrogo se in fondo parte essenziale di ogni servizio educativo non sia quello di offrire un vocabolario grazie al quale poter raccontare cosa si prova di fronte ad un tramonto, come dire “ti amo” alla persona a cui si vuole bene, come dipingere i propri sogni e desideri, come creare legami solidi ed affidabili.

Nonostante l’estremo benessere in cui viviamo, sperimentiamo anche oggi ampie sacche di analfabetismo esistenziale tra i nostri giovani, povertà non solo linguistiche ma progettuali, emotive, di senso, di valori e di un significato complessivo del vivere. Non c’è umanità piena, riuscita, bella e ricca senza una parola capace di dar voce a chi siamo e a quello che pensiamo e sentiamo. Diventare uomini significa appropriarsi della parola “io” e “tu” e di ogni altro termine che ci permette di abitare il nostro tempo. È questa, forse, la lezione di don Lorenzo che sento più vicina ed affascinante.

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