I numeri e il linguaggio dei nostri padri

Va il pensiero - ogni tanto e con amore - al dialetto, la lingua dei nostri padri, usata di consueto e alla perfezione nell’infanzia da chi ora è in buona età e proviene non dalle classi dominanti ma dalle subalterne (come si diceva una volta). I rampolli delle famiglie ricche erano, infatti, costretti all’uso dell’italiano per non confondersi con la plebe e, per questo, quando si cimentavano con il dialetto, riuscivano goffi e maldestri. Sotto sotto c’era l’idea che l’idioma usato dal popolo non avesse in sé la ricchezza delle possibilità espressive dei linguaggi colti, ritenuti, invece, sacrari di architetture di pensiero elaborate e complesse, nobili per creatività e incrocio di metafore. Errore. Basta infatti un minimo di analisi per rendersi conto che, anche nei dialetti, vivono i grandi meccanismi tipici di quel dono divino che è l’intelletto umano, come si riscontrano nelle opere blasonate della grande letteratura.Mi poso ora, col pensiero, sull’affascinante mondo del simbolismo dei numeri, nato dai reconditi significati che tutte le culture intravedono in essi. Il sette, ad esempio, è simbolo della perfezione, della totalità cosmica, nel ricordo del racconto biblico della creazione. Credo che occorra partire da questi vertici, per capire un’espressione dialettale della quale pochi ora avranno memoria, ma che sentivo usata spesso nella mia infanzia. Non pochi, nei ricordi che ho del mio paese, per indicare comportamenti gravemente trasgressivi e quindi degni di totale condanna, sentenziavano che, con essi, si erano oltrepassati i limiti dei «sset cumandamenti». Trovavo strana l’espressione, perché è ben noto (o lo era allora) che, nelle tavole della Legge, i comandamenti sono dieci. Sono ora convinto che l’espressione, al di là della consapevolezza di chi vi faceva ricorso, nasceva dall’idea di totalità di cui il numero sette è simbolo. Appioppandola a malandrini della peggior specie, si voleva dire che nessuna nefandezza poteva essere ritenuta esclusa dai loro comportamenti.Accadeva però, sempre nel dialetto, che il sette, pur restando emblema di perfezione, venisse accostato ad altri numeri, formando endiadi di non sempre immediata perspicuità. Vado con esempi, partendo dal caso in cui, per dire di uno sforzo tenace compiuto per raggiungere determinati obiettivi, si ricorreva a una frase coniata così: «l’ha propri fai de sset e de sses».C’è sempre l’idea di completezza e di totalità, ma il ricorso all’abbinamento del sette con il numero inferiore di un’unità, avrà pur dovuto significare qualcosa. Se non mi inganno, c’era, nella frase, un cenno o al fatto che l’obiettivo, pur perseguito con ogni mezzo, non era stato raggiunto, o che vi si era arrivati con mezzucci di dubbia moralità. A quest’ultimo aspetto farebbe pensare il ricorso al sei, numero meno nobile rispetto a quello della completezza e della totalità.Al contrario, si davano situazioni in cui, accanto al sette, faceva capolino il numero maggiore di un’unità nella formula «sset o vot», della quale anche recentemente ho sentito far uso. Il fatto che sto per evocare rimanda a problemi ben più grandi delle amenità numeriche in cui ora ci si muove, ma mi corre l’obbligo di non andare fuori tema, come ci dicevano una volta, a scuola. Il fatto è questo. In una zona molto centrale della nostra città, un signore venne accostato - come spesso accade - da un tale evidentemente intenzionato ad avere aiuti in moneta. L’interpellato si rivolse a lui commentando il fatto così: «Belu, ti te se quel di sset o vot». Dubito che il richiedente si sia buttato in disquisizioni sul simbolismo dei numeri, ma certamente non ebbe dubbi sul fatto che non restava più nulla per lui. Quell’accostamento numerico voleva dire che si era al completo, anzi oltre, e questa idea di completezza ormai straripante veniva evocata, e, per così dire, rafforzata affiancando al sette il numero superiore di un’unità. Va da sé che altre interpretazioni sono possibili, e si sa anche che molti sono i commenti dedicati alle situazioni della vicenda qui narrata.Per completezza noto che un meccanismo non dissimile potrebbe intravedersi in un’altra combinazione numerica, in cui ad essere protagonista è il trenta con il soccorso del numero superiore di un’unità e sempre per dare l’idea della completezza, stavolta in ambito psicologico. Ciò avviene quando si dice: «Ho fai trenta. Fo trentün».Tanto basti per questo divertissement di inizio estate, dedicato con amore al linguaggio dei nostri padri.

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