La satira lodigiana dopo il caso «Charlie Hebdo»

In questi giorni, in tutto il mondo, «Je suis Charlie» è stata la frase più pronunciata. Un modo di esorcizzare una barbarie senza fine; un tentativo di esprimere una posizione contro la limitazione della libertà di espressione; un grido per dare voce al pensiero e al cuore. E dire che “no”, il mondo non si piega al ricatto dei terroristi. Oggi, a sette giorni dal drammatico mercoledì dell’assalto armato alla redazione di «Charlie Hebdo», il settimanale satirico francese torna in edicola (in Italia sarà in vendita, tradotto in italiano, con «Il Fatto Quotidiano»). Con una vignetta a tutta pagina in copertina che ritrae ancora una volta il profeta caro all’Islam, Maometto. Questa volta ha in mano un cartiglio con la scritta «Je suis Charlie»; sopra all’immagine la scritta «Tous est pardonné», tutto è perdonato. Oltre allo strazio per i morti sotto i colpi del fanatismo, il mondo si interroga sul rapporto tra libertà di espressione e l’esistenza di limiti - etici, morali, di coscienza - in relazione a temi delicati, come le religioni. Ieri, i Gesuiti francesi, sulla rivista «Etude» hanno pubblicato alcune delle vignette di «Charlie Hebdo» sul cristianesimo - chiarendo che «è un segno di forza ridere della nostra istituzione» - , i commenti però si sono divisi tra chi ha fortemente criticato la scelta e chi invece l’ha sostenuta. Cosa ne pensano i vignettisti de «Il Cittadino», Lele Corvi e Claudio Cadei, matite che vantano numerose collaborazioni quotidiane, e chi, come Amedeo Anelli, dirige il premio satirisco internazionale dedicato a Novello (insieme a Corvi), matita mirabile, autore umoristico e pittore del secolo scorso? «La libertà di espressione andrebbe sempre difesa, al di là dello stile che utilizza - commenta Corvi - e di certo non va attaccata con i mitra. Pur conoscendo poco il lavoro di questi disegnatori, sono molto lontani dal mio stile. Prima di disegnare, personalmente, mi interrogo sempre sull’eventualità che il mio lavoro possa essere offensivo. Sono dell’idea che qualsiasi argomento vada affrontato, ma sono altrettanto convinto che ci voglia sensibilità». Anche perché, secondo Corvi, il lettore di oggi è già stressato dal linguaggio per immagini choccanti utilizzato da Internet e dai social media. «Ogni vignetta può avere miliardi di chiavi di lettura e il lettore spesso si ferma al primo impatto, senza andare a fondo nell’analisi - argomenta ancora Corvi, che sulla solidarietà espressa a gran voce in questi giorni aggiunge - : non siamo tutti Charlie, anche se oggi viene automatico dirlo. Troverei più coerente una manifestazione di sostegno con la pubblicazione dei lavori di quei vignettisti. Senza contare che la grande tradizione della satira italiana si sta perdendo nel Paese, per mancanza di spazi sui quotidiani». Anche per Claudio Cadei, i limiti esistono. «Io ne osservo due, il buonsenso e il buongusto - spiega - , che non significa autocensurarsi, ma affrontare tutte le questioni con intelligenza. Soprattutto quando si trattano discorsi etici o si entra nell’intimo della coscienza delle persone. La satira deve denunciare i vizi, la violenza, la degradazione della società, anche il fanatismo, non certo Dio. Insultare o offendere non è satira». Anche Amedeo Anelli, anche direttore della rivista «Kamen’», sottolinea l’importanza della coscienza di chi ha in mano una matita, specificando però che «non esistono limiti, perché altrimenti non c’è satira. Si può parlare di qualsiasi cosa, ma esistono le cautele del caso, che derivano dalla coscienza e dalla presa di resposabilità del disegnatore». Anelli contestualizza poi il panorama culturale di Paesi come la Francia, l’Italia e il mondo anglosassone, per storia e tradizioni molto diversi. «In Italia la tradizione di impegno civile è parecchio attenuata perché gli effetti della Controriforma ne hanno condizionato lo sviluppo, mentre in Francia, dalla Rivoluzione Francese in poi, la cultura ha assunto una forte impronta civile che deriva dal razionalismo e dall’illumismo - chiude lo studioso - : l’aspetto della cultura anglosassone, invece, è improntato alla cautela, all’utile, al conveniente».

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