“Arrival”: gli incontri ravvicinati con la vita

«So come finisce questa storia, ci penso spesso. Penso spesso anche a come è cominciata, quando nell’orbita terrestre comparvero le navi…». Quando arrivarono gli alieni e Louise fu chiamata per interpretarne il linguaggio. Ora, nel presente.

Louise è una linguista ed è la protagonista dell’incontro ravvicinato raccontato in Arrival, il bellissimo film di Denis Villeneuve tratto da uno dei racconti di Ted Chiang, autore cinquantenne che con i suoi libri ha contribuito a riscrivere la letteratura di fantascienza. Con una scrittura che, come in questo caso, mischiando presente e futuro prossimo, quotidianità e scienza, racconta con uno sguardo molto “terreno” lo sbarco degli alieni sulla terra.

In verità Storia della tua vita (questo il titolo del racconto da cui il film è tratto) parla di molto altro, di una madre e di una figlia innanzitutto, di extraterrestri con sette “gambe” simili a tentacoli, gli “eptapodi” che sbarcheranno un giorno sulla terra con quelle navi, parla della vita e della morte, dell’elaborazione del lutto e del senso da dare al trascorrere del tempo. Ripete le domande che tutti ci facciamo, e le risposte che Louise sembra sapere già e che però non servono a cambiare il futuro e il suo destino…

È un film sul linguaggio Arrival, sulla parola, sul disperato bisogno di comunicare. È un dialogo continuo. Di Louise con la figlia, di Louise con gli extraterrestri, di Louise con se stessa. Il racconto di Chiang (poco più di 50 pagine) è costruito su questo “discorso diretto” privato della protagonista con la figlia e sul dialogo che la stessa riuscirà a stabilire con gli alieni. Il film di Villeneuve monta il primo come se fosse un flashback mentre il secondo è descritto al presente, anche se scopriremo che il tempo è l’altra variabile fondamentale in questa storia, l’elemento cardine da poter decifrare per capire tutto.

Il regista costruisce un universo visivo se possibile ancora più affascinante rispetto a quanto avviene sulla carta. Nella raffigurazione delle navi spaziali ad esempio, enormi ellissi nere cariche di mistero. Restando coerente al racconto, vicino alla sua storia difficile da restituire sullo schermo, Villeneuve descrive un tempo (presente?) carico di incertezza in cui i protagonisti si trovano a dover dare delle risposte a domande senza tempo. Chi sono questi extraterrestri e perché sono arrivati sulla terra? Quali sono le loro intenzioni che sembrano pacifiche ma che allo stesso tempo mettono in pericolo la sicurezza dell’intero pianeta, impegnato a decifrarne le azioni… Ma la vicenda privata è, se possibile, ancora più importante, legata com’è al mistero della vita e della morte.

Né lo Spielberg di Incontri ravvicinati né Philip Dick ispiratore del cyberpunk e del capolavoro Blade Runner con cui lo stesso Villeneuve si dovrà ora confrontare. (Parentesi: se una cosa si può dire dopo Arrival è che tanta parte dei timori per il sequel di quel capolavoro in arrivo sono tacitati dalla visione di questo film…). Né uno né l’altro ma tutti e due (e molti altri ancora) insieme: Arrival è un misterioso concentrato di quella fantascienza che Chiang ha contribuito a cambiare, reinterpretandola. Villeneuve con uno sguardo meno scientifico, meno analitico, più “accessibile” perde qualcosa rispetto al racconto, ma viceversa diventa se possibile più appassionante quando deve descrivere il linguaggio degli optapodi, che traduce sullo schermo con degli ideogrammi circolari che hanno una grande potenza visiva. Dentro quei segni ci sono le domande di Louise che hanno già una risposta e c’è la potenza di un cinema che è capace, quando è in stato di grazia, di dare forma a storie come questa.

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