Al Pacino, tre generi

per riscrivere Wilde

e la sua “Salomè”

Wilde Salome di Al Pacino plana sul Festival con tutto il suo carico spettacolare commerciale e divistico del suo regista e protagonista. Ma, è solo un istante. Anche se non si dimentica facilmente chi è Al Pacino e i suoi tic, se ne ricorda bene uno studentello che lo scorge in visita al Museo d’Arte Moderna di Dublino e ne urla il nome imitandolo in “Scarface” ribattuto immediatamente dall’attore, qui consapevole del proprio stato di divo. Senza spocchia e con ironia e leggerezza l’attore e regista improvvisa la propria ossessione per il dramma di Oscar Wilde Salomé spiattellando addirittura un progetto da condursi su tre bande (dopotutto vi faccio risparmiare dice tutto contento ai collaboratori e finanziatori, tre film in uno): teatro, cinema di finzione e documentario che ne racconti la genesi e i viaggi che lo hanno portato a cercare lo scrittore di Dorian Gray nei luoghi e nelle città che lo hanno visto spadroneggiare nei salotti buoni della società vittoriana, felice e gaudente, e poi mestamente decaduto dopo il carcere di Reading, ramingo tra l’Italia e Parigi, dove morirà. Ed è sorprendente come Pacino riesca in 95 minuti a far poltiglia, come se stesso o come Erode, del ciarpame attuale accademico, europeo, peraltro spalleggiato da sodali che si chiamano Tom Stoppard, Gore Vidal, Tony Kushner e Bono e dalla fantastica attrice Jessica Chastain, Salomè indimenticabile. Quest’ultimo dublinese come Wilde che qualche tempo fa a dispetto del suo stato di rockstar si prestò a reinterpretare radiofonicamente Murphy pastiche da Beckett. D’altronde la triade dei dubliners, fuoriusciti dalla capitale irlandese, Wilde-Joyce-Beckett, ha introdotto non poco la modernità politica, sociale, artistica e mediatica. Mentre in Italia, a far faville, nemmeno troppo conosciuti, erano a dettar legge postuma la triade De Sanctis-Croce-Gramsci. Sono differenze di non poco conto, quando un italo-americano come Al Pacino volge lo sguardo a nord e resta, pare, indifferente al Paese d’origine. Eppure d’Annunzio era vivo al tempo di Wilde e come arbitro d’eleganza non gli era da meno. Forse nemmeno come scrittore e poeta. Forse come drammaturgo. Ma sì, Pacino scopre le carte: la sua ossessione è l’eterno femminino che governa gli atti degli uomini e il loro mancato senso della storia. Che finiscono per non comprendere e uccidere.

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