Una guerra ingiusta tra poveri ingiusti

L’argomento è vecchio come la scuola, è serio a tal punto che è la stessa Costituzione a sottolinearne le variabili professionali, ed è persino culturalmente sentito tanto che spesso e volentieri viene tirato in ballo Don Milani con il suo libro “Lettera a una professoressa” del 1967. Allora mi chiedo: gli insegnanti incontrati in un bar, presi dal vivace colloquio con venature polemiche corredate da battute al vetriolo rivolte ad altri insegnanti, incuranti del piccolo piacere che provavo davanti a una fumante tazzina di caffè, sapevano di tutto questo? Ho dei seri dubbi. Sono convinto, infatti, che una più approfondita conoscenza dell’argomento avrebbe forse reso meno velenose le battute e più redditizia la conversazione. Ma tant’è. A ben riflettere, comunque, non hanno tutti i torti. Da una parte c’è ingiustiil trattamento economico dei docenti che lascia sgomenti persino i più disinformati, dall’altra il carico di lavoro distribuito in modo così disuguale tra gli stessi docenti da porre dei seri interrogativi sull’efficacia delle attuali normative. Il problema di fondo si trascina da anni, eppure non va oltre le lamentele che sia pur provocatorie, stranamente non raccolgono reazioni. Silenzio assoluto! Silenzio da parte dei sindacati, silenzio da parte di quei docenti tirati per il bavero, silenzio da parte della stampa specializzata e soprattutto silenzio da parte del Ministero. Ma cosa mai si sono detti tra loro questi miei docenti incontrati lì per caso? A rendere meglio l’idea parto dalla frase di Don Milani quando scrive «non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». Ecco centrato il problema. A far arrabbiare, infatti, certi docenti è proprio il trattamento economico riservato a tutti in modo uguale senza tener conto dell’impegno diseguale che qualcuno si ritrova. Docenti che si portano a casa i compiti da correggere, che passano le serate in famiglia tra la preparazione della cena e la preparazione delle lezioni post cena, che, terminate le ore di lezione, condividono il residuo tempo giornaliero tra ciò che la famiglia si appresta a chiedere e ciò che invece la scuola continua a richiedere. Ma non per tutti è così. Non tutte le materie di studio richiedono un surplus di lavoro. E qui che acquista vivacità lo scontro tra pari. Ci sono docenti costretti a prolungare il lavoro anche a casa e docenti che terminano il lavoro con l’uscita dalla scuola. E’ facile pensare a docenti costretti dalle circostanze professionali a continuare il lavoro in un ambiente che non ha nulla di scolastico se non quello mutuato dal pacco dei compiti da correggere o dai verbali da preparare. Ecco materializzarsi il riferimento culturale vecchio quanto la scuola, ragion per cui si fanno «parti uguali fra disuguali». Lo stipendio è uguale per tutti, ma la quantità di lavoro, invece, non lo è. Di qui la domanda: perché non viene riconosciuto ad alcuni un maggior impegno per un lavoro richiesto da situazioni professionalmente diverse? Perché non pensare a una disparità di trattamento giustificata da una diversità di funzione? Il discorso si fa quindi più particolare perché tocca la sfera della distinzione professionale in un ambiente, come quello scolastico, dove tale distinzione è resa labile dai contratti di lavoro. A parità di ore di lezione corrisponde una parità di trattamento economico senza che nessuna sostanziale distinzione viene fatta tra un tipo di scuola e l’altro, tra una materia di studio e l’altra o tra una funzione ricoperta e l’altra. Il malessere serpeggia. Ci sono docenti con funzioni quasi impiegatizie e docenti chiamati a svolgere compiti e funzioni resi obbligatori da particolari circostanze che non trovano pari riferimento all’interno dello stesso consiglio di classe. A questi ultimi va un ridicolo contentino che non soddisfa e non rende giustizia sul piano del riconoscimento economico. I docenti non sono degli impiegati che una volta usciti dall’ufficio vedono la porta chiusa alle spalle per il resto della giornata. A molti docenti questo non succede, perché succede l’esatto contrario. Molti docenti rivendicano proprio questo mancato riconoscimento. E per dare più incisività a certe affermazioni c’è l’art. 36 della nostra Costituzione dove tra l’altro si legge: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro…..». E qui il contrasto culturale si fa più duro. Nessuno pare disposto a rinunciare a una parte della propria convinzione. Il Contratto di Lavoro della categoria viene posto a tutela del riconoscimento della parità di trattamento economico che, al contrario, il mancato rispetto della Costituzione non rende proporzionale. Lo scontro si fa polemica. E’ una guerra tra poveri che si combatte su più fronti. Docenti di istituti professionali contro docenti liceali o docenti delle medie contro docenti delle materne. Una guerra che divide e contrappone da una parte chi si sente impegnato fino a dare un senso alla propria professionalità e dall’altra chi viene ritenuto professionalmente un “alleggerito” perché vive la scuola come una semplice opportunità e non come un’occasione. Sono contrapposizioni che causano ferite profonde fino a toccare non solo la dignità di chi protesta o di chi viene toccato dalla protesta, ma causano anche taluni effetti collaterali che ricadono su ragazzi e genitori. Una guerra resa ancor più amara dalle recenti affermazioni fatte dalla parlamentare Elena Centemero, responsabile scuola del Pdl che invita il Ministro a sfruttare «le vacanze per far misurare gli studenti con discipline nuove e attività integrative, per organizzare corsi di recupero più approfonditi, per sperimentare modalità di insegnamento innovative e per valorizzare le attività sportive». Idee eccellenti. Ma un disegno del genere richiede molte risorse e ingenti investimenti per assicurare ai ragazzi ottime professionalità disponibili a lavorare in strutture adeguate agli scopi didattici proposti in tempi, ambienti e orari diversi. E allora chiediamoci se le nostre strutture scolastiche sono pronte a recepire un tal salto rivoluzionario sotto ogni aspetto sia esso professionale, organizzativo e strutturale. Personalmente ho dei forti dubbi. Possono, ad esempio, dei ragazzi sperimentare insegnamenti innovativi in ambienti scolastici non adeguatamente strutturati a fronteggiare il caldo opprimente come quello registrato questa estate?

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