Sparano da banditi e pregano da peccatori. Pianificano stragi e portano le statue dei santi in processione. Allungano le mani sugli appalti pubblici, controllano il traffico di immigrati e prostitute, gestiscono il ciclo del cemento e quello dei rifiuti, vendono droga e comprano uomini. Non si fermano di fronte a nulla eppure, alla sera, si raccomandano ai santi(ni) della Bibbia e invocano i cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso perché li proteggano insieme all’arcangelo Gabriele. Sono gli uomini di mafia: camorra, cosa nostra, sacra corona unita. E ‘ndrangheta, soprattutto ‘ndrangheta, la più ricca e pericolosa tra le organizzazioni criminali e quella meglio introdotta nell’economia nazionale e internazionale con un fatturato di oltre 40 miliardi di euro, pari a quasi il 3% del Pil italiano.Sebbene sia tanto potente e danarosa, la mafia ha però estremo bisogno di affondare le radici nel territorio. Si direbbe quasi che sia tanto più forte e facoltosa quanto più capace di creare consenso sociale nei luoghi in cui opera. Perché senza essere inseriti nel tessuto collettivo, senza avere riconoscimento, legittimazione e accettazione, gli uomini di mafia non avrebbero ragione di esistere. Così, in uno scambio reciproco, le organizzazioni mafiose si sostituiscono allo Stato laddove è meno presente e i cittadini traggono benefici economici, sicurezza e giustizia da un’acquiescenza avita. Quid pro quo, tutti guadagnano e nessuno perde. Almeno fino alla prossima faida. Ma ad indagare nelle trame malavitose, come hanno fatto due magistrati che della materia si sono occupati per anni, è facile scoprire che in realtà ad avere la peggio qualcuno c’è sempre. Ed è la parte sana della società, quella che della mafia è la prima avversaria.Per Alfredo Mantovano e Domenico Airoma, autori dell’agile e puntuale saggio “Irrispettabili. Il consenso sociale alle mafie” pubblicato in questi giorni da Rubbettino, la questione non lascia spazio a fraintendimenti: “O la presa di distanza è senza equivoci, o il delinquente diventa un eroe, quello che con la violenza riesce facilmente a fare soldi, e assurge a modello di cui ricordare la data della morte. È un problema di sensibilità in senso lato culturale, e coinvolge tutti, a cominciare dalle autorità politiche del territorio”. Per colpire nel vivo le organizzazioni mafiose, oltre agli arresti e ai mandati di cattura, la forma di contrasto oggi più efficace da parte dello Stato è quella del sequestro e della confisca dei beni: “Gli fa male perché contribuisce a fargli perdere forza di intimidazione, credibilità, e alla fine consenso”. Per il mafioso è “un affronto più grave dell’arresto” perché sta a significare che “lo Stato, e la comunità che dallo Stato si sente rappresentata, riesce a porre a servizio delle istituzioni il ‘lavoro’ illecito svolto dal criminale”. La mafia ne esce così indebolita, non soltanto economicamente.Ma il processo più necessario è quello culturale, tanto da far domandare agli autori: “È la mafia ad aver dismesso i propri panni, assumendo un volto più presentabile, o è il corpo sociale nel suo insieme a essersi progressivamente privato degli abiti che lo identificavano?”. E allora, per imprimere un cambiamento significativo, la risposta è chiara: “Si tratta di educare alla legalità: ma non a legalità che coincide per intero con norme e codici. Il termine chiave è educazione prima ancora che legalità. E l’educazione va a braccetto con la formazione”.La ricerca di consenso sociale della mafia, però, si combatte anche tra le sacre mura della Chiesa. Se gli uomini di mafia trovano adesione tra i loro concittadini, infatti, è anche grazie al largo impiego di riti e (ab)usi del cattolicesimo. E, talvolta, alla poca avvertenza di alcuni esponenti del clero. Lo documenta con precisione la giornalista Annachiara Valle, nel recente volume “Santa malavita organizzata” edito dalla San Paolo: “La vicinanza con il mondo cattolico ha permesso alla ‘ndrangheta, e in generale alle mafie, di costruire la propria immagine e ideologia” beneficiando di una “sottovalutazione che la Chiesa nel suo complesso ha fatto del fenomeno”. Non è un caso se, ad esempio, il Santuario della Madonna di Polsi è diventato per decenni uno dei più importanti luoghi di ritrovo della ‘ndrangheta calabrese fino ad un passato recente. O se le statue portate in spalla dai mafiosi durante le processioni religiose sono un’ostentazione di potere di fronte alla comunità. La Chiesa, che già prima delle vibranti parole di Giovanni Paolo II nel 1984 aveva iniziato a prendere consapevolezza del pericolo mafioso, ha però scelto da che parte stare. E lo testimoniano le tantissime iniziative portate avanti da quelli che Valle definisce “i preti che fanno i preti”: gruppi di giovani nelle parrocchie, comunità di recupero, cooperative gestite nei terreni confiscati, sostegno concreto alla lotta contro il racket. E poi omelie taglienti e chiare, scelte coraggiose e rifiuto di celebrare i sacramenti per chi pecca di mafia. Per testimoniare con trasparenza da che parte sta un cristiano vero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA