Se chiudono le stalle, addio alle cascine

La popolazione mondiale è in rapida crescita. Secondo stime di fonte Onu, nell’ottobre del 2011 si è toccata la cifra di 7 miliardi di esseri umani e si prevede che nel 2040 gli abitanti del pianeta saranno all’incirca 9 miliardi. Due miliardi di bocche in più da sfamare. Prioritaria e inderogabile è pertanto l’esigenza di aumentare la produzione alimentare. Considerata spacciata a ogni ricorrente crisi e messa in un cantuccio dalla supponenza di industria e finanza, torna in auge l’agricoltura. Che questo sia vero, si deduce dal cosiddetto “accaparramento di terre”, che si pratica in una sorta di supermarket dove i ricchi comprano le terre dei poveri. La conseguenza è che le comunità contadine vengono cacciate da pascoli e terreni coltivabili su cui vantano diritti di uso o di proprietà, restando prive delle fonti di sostentamento. Non è un segreto per nessuno che la Cina fa da anni incetta di terre in Africa, a prezzi stracciati, e che una grande società di casa nostra ha comprato, si fa per dire, mezza Patagonia. La pianura irrigua del Po è sede di un’agricoltura tra le più rinomate al mondo, in cui la produzione zootecnica raggiunge livelli spettacolari di perfezione tecnica e agronomica. Un’agricoltura di enormi potenzialità, che nulla ha da invidiare ai modelli storici e protostorici affermatisi in varie parti del mondo, dall’antico Egitto a Babilonia, dalla Grecia arcaica a Roma imperiale, dagli Aztechi ai Maya. Se però si va per cascine o, più semplicemente, si va a spigolare tra le inchieste giornalistiche di Eugenio Lombardo, apparse con cadenza settimanale su “il Cittadino” e pubblicate in volumi nella serie “cascine di famiglia”, si incontra una realtà che risente di problemi e difficoltà. Non ci vuole molto a capire che nella maggior parte dei casi, pur mettendoci tutta la buona volontà, gli agricoltori sopravvivono attuando una gestione di ripiego, un posizionamento di fortuna. È un modo di arroccarsi in difesa per superare le congiunture sfavorevoli derivanti dal mercato o da fattori interni all’impresa. Alcuni producono energia, cioè corrente elettrica da pannelli fotovoltaici a terra, biogas o elettricità dalla digestione di biomasse, altri si dedicano all’agriturismo o praticano metodi biologici. C’è chi si prende cura dell’ambiente o vende direttamente ai consumatori i prodotti agricoli, e chi, infine, opta per la monocoltura o gli ordinamenti vegetali. Ovviamente ci sono anche aziende zootecniche molto avanzate e competitive, ma sono sempre meno, perché i magri profitti obbligano molti imprenditori a chiudere le stalle. Questa parcellizzazione degli assetti produttivi trasforma l’azienda in uno spezzatino di attività, che immiserisce i risultati e comprime i redditi. Il biogas, ad esempio, secondo gli agronomi più accreditati, ha un senso solo se deriva da biomasse come liquami o prodotti di scarto e viene utilizzato per usi aziendali. Se invece viene trasformato in elettricità, i conti dell’azienda vanno in rosso. Il fotovoltaico a terra, affermano persone la cui competenza non può essere messa in dubbio, è utile perché in uno scenario economico drammatico consente agli agricoltori di garantirsi un discreto profitto. Tuttavia, a mio avviso, per dare una valutazione complessiva, bisognerebbe tenere conto degli incentivi governativi alle energie rinnovabili. Incentivi che rappresentano un onere non indifferente per lo Stato e che di conseguenza non possono durare per sempre. I metodi biologici sono vantaggiosi per le ricadute sul Made in Italy. Resta però da chiedersi come mai si dia importanza solo all’agricoltura biologica, che rappresenta appena il 10% della superficie agricola totale, mentre l’altro 90% passa in seconda linea o non viene neppure nominato. Può esserci progresso agricolo se si bada in modo maniacale al 10% delle terre e si trascura il rimanente 90%, che è quasi tutto? E’ il modello biologico, se ci crediamo, che deve occupare il 90% della superficie o, ancora meglio, il modello razionale o integrato, secondo gli insegnamenti di Giovanni Haussmann (Fanfullino 1974), che, ahimè, in pochi anni sono caduti nell’oblio. Anche la vendita diretta dei prodotti ha la sua importanza, come giustamente raccomandano la Coldiretti lombarda e nazionale. Essa è però da considerarsi una fase provvisoria, perché l’obiettivo finale deve essere l’appropriazione da parte del settore agricolo del valore aggiunto dell’industria alimentare e della distribuzione, che oggi è purtroppo appannaggio di operatori esterni al mondo agricolo. Che senso ha poi affermare che il compito dell’agricoltore è quello di proteggere l’ambiente? L’agricoltore deve produrre cibo e farci il suo guadagno. Punto e basta. La protezione dell’ambiente l’agricoltore la fa in modo automatico mentre lavora e produce. Insomma, il modello di agricoltura ecocompatibile e polifunzionale, voluto dall’Unione Europea ed enunciato nella famosa Agenda 2000, ispirato a qualità, cura del territorio, sostenibilità ambientale e disintensificazione colturale, non ha portato fortuna alla cascina lombarda che, rammentiamo, è nata per interpretare un modello intensivo e industriale di coltivazione abbinato all’allevamento del bestiame.Occorre pertanto tornare sulla vecchia strada, ripristinando l’indirizzo foraggero-zootecnico, che è il tratto più congeniale e caratteristico dell’agricoltura padana, puntando sui prati e sui cereali foraggeri e riempiendo di nuovo le stalle. Tutti possono oggi, da Gorizia a Trapani, produrre mais, se dispongono di acqua irrigua, ma i prati crescono meravigliosamente bene solo da noi. Questa è la ragione principale che ha suggerito di conferire al Lodigiano l’appellativo “Terra Buona”, vale a dire la Terra del gusto e della gastronomia. Bisogna sforzarsi di migliorare qualità e tipizzazione della produzione zootecnica, nel rispetto dell’ambiente, in modo analogo a quanto hanno fatto con successo le aziende viti-vinicole della collina toscana e mediterranea, che oggi hanno conquistato una preziosa immagine mediatica nel mercato mondiale. Solo così le cascine possono essere mantenute a fini agricoli, senza aspettare che cadano a pezzi o siano convertite in ristoranti, discoteche o centri sociali.Davanti alle sfide del futuro e alle potenzialità del made in Italy, l’agricoltura padana può giocare un ruolo decisivo per la crescita del Paese e il benessere della popolazione. Ci aspettiamo ovviamente un ruolo decisivo anche della politica e vediamo con favore le iniziative programmate dal comitato promotore degli Stati Generali volte a sensibilizzare i candidati alle elezioni regionali sugli obiettivi e i nuclei tematici più importanti contenuti nel Libro Bianco.

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