Quei paladini pieni di dubbi sull’Europa

Una sintesi fulminante, ancorché irriverente, degli attuali problemi dell’integrazione europea arriva dall’eurodeputato ecologista franco-tedesco Daniel Cohn-Bendit. Alla vigilia dei funerali di Margaret Thatcher, Cohn-Bendit ha affermato che la premier britannica degli anni ‘80 «può dirsi orgogliosa di avere ben 27 figli che la pensano come lei e come lei ripetono: I want my money back, voglio indietro i miei soldi». L’ex leader del ‘68 intende rimarcare il clima euroscettico e nazionalista che si respira non solo nell’opinione pubblica continentale, segnata dalla crisi e dalla disoccupazione, ma anche nelle sedi istituzionali, nei governi dei Paesi membri, tra i responsabili politici. Gli esempi in tal senso sono innumerevoli: si potrebbe ricordare l’annunciato referendum inglese sulla permanenza o meno nell’Ue per iniziativa del premier David Cameron, il quale è solo la punta dell’iceberg della crescente insofferenza, soprattutto nel Nord Europa, verso le istituzioni comuni. L’antieuropeismo si respira anche in Germania, che a settembre sarà chiamata alle elezioni legislative. Sarà forse per questo che la cancelliera in carica, Angela Merkel, pur di mettere al sicuro la vittoria strizza l’occhio allo stesso Cameron. Lo ha notato tutta la stampa internazionale e lo ha messo nero su bianco nei giorni scorsi l’autorevole «The Times» con un commento di Thomas Kielinger: «Angela e David, la loro dev’essere una delle intese sentimentali più appariscenti della storia politica recente». Gli eurodubbi d’Oltre Manica sono accarezzati da molti tedeschi e potrebbero essere decisivi al momento del voto.Un elemento appare certo: la crisi finanziaria ed economica importata cinque anni fa dall’America ha trovato impreparata l’Europa presa nel suo insieme e i suoi singoli Paesi membri: sistemi bancari strutturalmente deboli, conti pubblici traballanti, apparati produttivi e commerciali poco competitivi, innovazione e ricerca fuori dalla «pole position» mondiale, produttività e costo del lavoro più che problematici, welfare costosi e non sempre efficienti. Da qui una serie di interventi, sia all’interno dei singoli Stati sia a livello Ue, volti a mettere un freno alla recessione, puntando più all’austerità che al rilancio in chiave di crescita, investimenti, occupazione. Lo scontento popolare nasce - comprensibilmente - da qui, esprimendosi in sede pubblica con populismi, neo nazionalismi, rigurgiti protezionisti, battesimo di partiti anti-euro, come la recentissima «Alternative für Deutschland» dell’economista Bernd Lucke. Eppure è convinzione diffusa tra gli analisti e i politici più accorti che «l’Europa non è il problema, semmai può rappresentare la soluzione ai nostri guai», come ha ricordato il presidente della Commissione José Manuel Barroso. Dunque «più Europa» e «risposte comuni a problemi che toccano tutti». Ma su questa strada occorre riconoscere che si sono compiuti vari errori, che i ritardi decisionali si sono moltiplicati spesso proprio per il rinchiudersi in sé dei leader nazionali, di volta in volta resisi paladini del «I want my money back». L’Unione europea è tuttora alla ricerca di un sano equilibrio tra alcuni dei suoi valori fondanti e in particolare tra «solidarietà» e «responsabilità». Lo ha spiegato a chiare lettere Jyrki Katainen, premier di un Paese «virtuoso» come la Finlandia, nell’emiciclo del Parlamento Ue il 16 aprile: «Noi vogliamo una Unione forte, ma giusta. Nella quale siano difesi i valori comuni ma siano anche rispettate le regole comuni. Gli Stati devono convergere di più, ma allo stesso tempo devono fare ordine a casa propria». Ne discendono azioni concrete e urgenti non più dilazionabili per ridare slancio all’economia del vecchio continente e per far ripartire la macchina dell’integrazione politica. Joachim Fels, capo economista di Morgan Stanley, ha indicato, ad esempio, la necessità di addivenire al più presto all’unione bancaria da una parte, e a un vero bilancio Ue dall’altra, che abbia i mezzi necessari per sostenere politiche di investimento e di sviluppo. La Commissione Ue insiste poi sul completamento del mercato interno, sulla piena realizzazione dell’unione economica e monetaria, sulla concertazione di politiche di interesse condiviso: energia, infrastrutture, ricerca, commercio estero, formazione di alto livello, sicurezza, ambiente… In tutto questo percorso non si può dimenticare che il deficit democratico contribuisce a tenere lontani i cittadini dall’Ue: un «gap» fra cittadini e Ue che si acuisce continuando a considerare l’azione dei governi nazionali come l’unica in grado di perseguire gli interessi reali di tedeschi e francesi, spagnoli e polacchi, italiani e lituani. La globalizzazione insegna, invece, che buona parte dei settori di cui si occupa tradizionalmente la politica non sono più gestibili efficacemente nelle singole capitali e che le grandi sfide si giocano - fatte sempre salve le differenze storiche, culturali e sociali nazionali - su un piano di grandi blocchi regionali. Più Europa «giusta», dunque, per il bene dei cittadini.

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